Cosa ci è piaciuto e cosa no alla Biennale Musica 2022 a Venezia
Dal 14 al 25 settembre è andata in scena a Venezia la Biennale Musica 2022, la seconda sotto la guida di Lucia Ronchetti, dedicata quest’anno al teatro musicale. Ecco com’è andata
Sono essenzialmente due le direttrici lungo le quali si è mossa la Biennale Musica 2022, la seconda sotto la guida di Lucia Ronchetti (appena insignita del premio tedesco per la composizione Louis Spohr Musikpreis), dedicata quest’anno al teatro musicale: una è quella di mostrare da diverse angolazioni, e sia con lavori già vecchi di alcuni anni o decenni, sia con numerose nuove produzioni, la vitalità del teatro musicale contemporaneo, nelle sue varie espressioni (il teatro strumentale, il teatro musicale sperimentale, la performance); l’altra idea-guida è quella di stringere un forte legame tra questa musica nuova e l’illustre tradizione che ha il teatro musicale a Venezia, centro come pochi altri cruciale per l’affermazione del genere operistico in Età Barocca, dove nel 1637 aprì i battenti il Teatro San Cassiano, il primo teatro esclusivamente dedicato al nuovo genere e il primo a cui si accedeva pagando un biglietto. Dalla declinazione e dal frequente incrocio di queste due traiettorie si è originato il programma del festival, caratterizzato da una grande varietà nella tipologia degli eventi proposti: dalla ripresa / rielaborazione / reinvenzione di lavori teatrali del passato (dell’Epoca Barocca o giù di lì) a svariati appuntamenti di teatro strumentale a letture di taglio storico, talvolta in abbinamento all’esecuzione di musiche dei nostri giorni. Una varietà che si è riscontrata anche nel livello qualitativo dei risultati: mai come quest’anno (perlomeno da alcuni anni a questa parte) si sono alternati a esiti eccellenti spettacoli francamente deludenti; gli eventi riusciti sono stati davvero belli, quanto facilmente dimenticabili quelli fallimentari. Un quadro dunque molto chiaroscurato, di cui si metteranno qui in rilievo i momenti più luminosi, succedutisi nei giorni in cui abbiamo seguito il festival (dal 17 al 22 settembre).
IL SORPRENDENTE RITORNO DI ULISSE
The Return di Simon Steen-Andersen, ricreazione difficilmente classificabile de Il ritorno di Ulisse in patria di Claudio Monteverdi commissionata dalla Biennale, è un caleidoscopio di idee, trovate, visioni, un vortice di suoni e immagini che conquista lo spettatore e lo trascina con sé, proprio come Ulisse al termine dei suoi giorni, in fondo al mare, alla scoperta di tesori inattesi. Lo spettacolo, proposto in due repliche il 16 e il 17 settembre, è caratterizzato dalla compresenza di elementi molto diversi tra loro, che però la creatività inesauribile del compositore e regista danese sa fondere in un insieme coerente. Sull’ampio schermo che incombe sul palcoscenico scorrono bellissimi video, in molti passaggi di ardua realizzazione, a cominciare da quelli in cui una pallina, in maniera molto steen-anderseniana (esplicito è il rimando, anche nel sottotitolo dell’opera, a Run Time Error), mette in moto un complicatissimo domino. Altre volte i video raffigurano ambientazioni che si integrano con lo spazio reale, dove si muovono e cantano i tre protagonisti, che ogni tanto si “infilano” nello spazio filmato e lo abitano in forma anch’essi di filmati, per poi tornare magari sul palcoscenico (cosa, capirete, non facile da eseguire alla perfezione, come invece è accaduto nelle due repliche). A livello musicale, frammenti più o meno ampi della partitura monteverdiana, resa con rigore filologico da musicisti che suonano strumenti antichi, si intrecciano con i live electronics, o con la musica popolare (a un certo punto riecheggia in sala La biondina in gondoleta), oppure subiscono ibridazioni con altri generi musicali, come il jazz. Lo spettatore, come si diceva, rimane “incollato” allo spettacolo, passando attraverso una ridda di emozioni: dalle risate sfrenate prodotte da alcune scene decisamente comiche (Ulisse in sedia a rotelle che, a velocità folle, insegue e saetta i Proci, dando loro la caccia su e giù per l’Arsenale) alla malinconia che producono diversi frangenti, specialmente nella parte conclusiva (come un bel ritorno in barca del compositore all’Arsenale, sul far della sera), alle atmosfere tetre della scena tagliata nell’originale, ma creata ex nihilo da Steen-Andersen, in cui i Proci sono puniti nell’aldilà per la loro alterigia. Nel caleidoscopio di The Return c’è spazio per molto altro, anzi si direbbe per tutto, quasi che questo lavoro voglia essere (baroccamente) un microcosmo che riflette la complessità del macrocosmo: dalle notizie di attualità alla ricerca dell’originario sito dei più antichi teatri d’opera veneziani alla stand-up comedy in cui si impegna a un certo punto il mendicante Iro (convincentissimo nel ruolo del mattatore sbruffone il tenore Anicio Zorzi Giustiniani che, così come gli altri interpreti vocali, il soprano Giulia Bolcato e il basso-baritono Davide Giangregorio, accompagna alle doti canore ottime capacità attoriali). Ma l’elenco potrebbe continuare a lungo, e si risolverebbe in un arido catalogo che non può rendere ragione della freschezza inventiva di ciò che si vede sulla scena: il consiglio è quello di cercare di vedere questo lavoro, in video o ancor meglio, se sarà possibile, dal vivo.
DUE SERATE DI TEATRO STRUMENTALE
Splendido anche il concerto di sabato 17 settembre allo Squero della Fondazione Giorgio Cini sull’isola di San Giorgio. Innanzitutto per lo spazio sede dello spettacolo, estremamente affascinante sia dal punto di vista architettonico che da quello sonoro (nei silenzi emerge il frangersi ora quieto ora più agitato delle onde lagunari contro le fondamenta). Splendido, tuttavia, soprattutto per il valore dei quattro giovanissimi esecutori, reduci dall’esperienza di Biennale College. Il percussionista Federico Tramontana affronta con grande sicurezza una pagina difficile come i Graffitis di Georges Aperghis (1981), compositore cui era dovuta buona parte dei lavori in programma. I suoi Six tourbillons del 1989 sono resi con il necessario virtuosismo dal soprano Esther-Elisabeth Rispens, mentre Dafne Paris all’arpa dà corde e voce a Tryptique-Fidélité (part III), del 1982, dimostrando di possedere, oltre a una grande precisione esecutiva, quelle doti attoriali che sono richieste al performer che affronti un repertorio come questo. Soprano e percussionista, assieme alla clarinettista Kathryne Vetter, eseguono ottimamente, sempre di Aperghis, i 7 crimes de l’amour del 1979, successione di quadretti dall’atmosfera surreale, sovente spassosi. Così come molto divertente è la chiusura del concerto, con l’esecuzione del breve pezzo Hirn & Ei di Carola Bauckholt (2010), in cui i quattro performer riuniti suonano… le giacche di goretex da loro indossate per l’occasione. Uno spettacolo dunque da ascoltare e forse soprattutto da vedere (come d’altra parte molti di quelli proposti in questa edizione “teatrale” della Biennale), in cui il pubblico è ora deliziato dal virtuosismo degli esecutori, ora divertito dai passaggi più ironici. Al concerto dello Squero si può accostare un’altra bella serata di teatro strumentale, quella di domenica 18, in cui il Leone d’Argento di quest’anno, l’ensemble Ars Ludi, esegue il Leone d’Oro, ovvero Giorgio Battistelli, rappresentando il “dramma” per due percussionisti Orazi e Curiazi (1996). Antonio Caggiano e Gianluca Ruggeri lo mettono in scena con l’energia e l’efficacia che ci si può aspettare da un gruppo con una lunga esperienza come il loro, e a cui è andato un riconoscimento tanto prestigioso, così come in maniera impeccabile il trio (sul palco si vede all’opera anche il terzo componente dell’ensemble, Rodolfo Rossi) esegue il surreale e quasi circense Dressur di Mauricio Kagel (1977).
ANTICO E MODERNO, PAROLA E MUSICA
A The Return si può invece accostare, per il dialogo tra antico e moderno, la lettura-concerto che si è tenuta domenica 18 settembre nel Salone Sansoviniano della Biblioteca Marciana (luogo, come molti sanno, meraviglioso, ma gravemente penalizzato nella fruizione delle antiche tele dall’esposizione temporanea, del tutto slegata dalla Biennale, di opere del cabarettista e artista tedesco Dieter Nuhr, lasciamo perdere…). In questo caso però antico e moderno non si amalgamano, ma restano separati, come due valve di un dittico: prima il musicologo e musicista Paolo Da Col legge (o meglio interpreta, anche con brevi passaggi cantati) due testi fondamentali della riflessione teorica in ambito musicale nella prima metà del Seicento, la prefazione a Le nuove musiche di Giulio Caccini (1601) e la premessa di Claudio Monteverdi al suo ottavo libro di madrigali, quello consacrato ai Madrigali guerrieri et amorosi (1638). Quindi il virtuoso iraniano di tanbur Mehdi Jalali esegue una serie di improvvisazioni a partire da alcuni maqām tradizionali, stregando il pubblico con la sua bravura e i ritmi ossessivi (il musicista ha peraltro dedicato la sua esibizione a Mahsa Amini, la ragazza iraniana morta in seguito ai maltrattamenti subiti dalla polizia religiosa, dopo essere stata arrestata perché non portava correttamente il velo). Due momenti splendidi, dunque: resta qualche dubbio sul criterio che ha guidato la scelta di abbinarli in un unico spettacolo. Se infatti l’importanza data all’elemento ritmico nelle musiche eseguite da Jalali, enfatizzato dall’esteso uso percussivo della mano destra, può far pensare allo “stile concitato” teorizzato ed esemplificato da Monteverdi nel suo Ottavo libro, la celebrazione della monodia che anima le pagine di Caccini, nonché, più in generale, la declinazione “drammaturgica” della Biennale 2022, avrebbero fatto prevedere una seconda parte dedicata a un concerto per voce sola accompagnata da uno strumento, più che a un’esibizione unicamente strumentale (e comunque, lo ribadiamo, bellissima) quale poi si è avuta.
Fabrizio Federici
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