Virus Group. Napoli New York Corviale

Informazioni Evento

Luogo
DRUGSTORE MUSEUM NECROPOLI PORTUENSE
Via Portuense, 317, 00149 , Roma, Italia
(Clicca qui per la mappa)
Date
Dal al
Vernissage
15/10/2022
Generi
archeologia, arte contemporanea

Arte pubblica e museo di prossimità.

Comunicato stampa

Archeologia e arte contemporanea. Il caso Virus Group

di Alessio De Cristofaro

Archeologia e arte contemporanea formano un binomio sempre più diffuso nel panorama della produzione culturale attuale. Da oltre un decennio, fioriscono incontrollate ogni anno decine e decine di iniziative in cui artisti, contenuti e messaggi dell’arte contemporanea, si coniugano con monumenti, aree archeologiche o musei di antichità. Il fenomeno ha ormai assunto proporzioni colossali, generando una bibliografia specifica ricchissima e tutto un indotto articolato in mostre, eventi, happening, cataloghi, merchandising, che, per quanto concerne l’Italia, sarebbe opportuno studiare finalmente in modo critico.
È merito di Colin Renfrew aver colto con grande lucidità le analogie tra il pensiero e il metodo archeologico e l’arte e l’artista contemporaneo. Paradigmi epistemologici accomunano il modo di guardare e indagare la realtà attraverso la cultura materiale di archeologi e artisti: entrambi scavano strati (fisici i primi, visivi i secondi), osservano e interpretano oggetti, raccontano storie e riplasmano la memoria individuale e collettiva, inventando ogni generazione nuove tradizioni.
Non sorprende dunque, sin dai tempi del Ritorno all’Ordine, il continuo interesse degli artisti per il Museo, la Memoria e tutto l’infinito serbatoio formale e semantico racchiuso in quello che oggi chiamiamo Patrimonio Culturale. Un interesse che si manifesta in tante forme, dall’imprestito iconografico all’appropriazione linguistica, dal ripensamento di storie e miti alla delicata operazione di riconnessione a una tradizione solo apparentemente interrotta da Avanguardie e Futurismi, ma in realtà perennemente viva e fluente come un fiume carsico nella nostra memoria culturale novecentesca e contemporanea.
A partire dalla seconda metà del XX secolo, diversi sono gli artisti che si sono misurati con la memoria archeologica ad amplissimo raggio, non solo esplorando l’infinito repertorio delle culture materiali delle tante civiltà del passato, ma entrando fisicamente in contatto ed empatia coi luoghi. Un dialogo serrato coi contesti, che si è tradotto in azioni ed opere che nella carne viva delle rovine hanno provato a lasciare traccia più o meno duratura di sé. Impossibile ricordare qui i tanti che si sono cimentati in questa esperienza di rapporto con l’Antico: per restare all’Italia e ai casi più noti, penso agli straordinari interventi di Land Art sul patrimonio monumentale di Christo, alle riflessioni postmodernclassiche (il neologismo è mio, e me ne scuso con la Crusca..) di Anne e Patrick Poirier, alle variazioni spirituali e temporali sui temi cari all’Arte Povera di Kounellis, Pistoletto, Mattiacci, Penone, o al nuovo monumentalismo mitologico di Mitoraj.

L’artista in dialogo con l’Antico, l’artista che si immerge in un rapporto col passato materiale che a volte ha tratti di carnale passionalità, altre di filosofica melanconia, altre ancora quelli di cerebrale ossessione, ricorda, è vero, l’atteggiamento e la visione che del mondo hanno gli archeologi (almeno i migliori). E come questi, anche gli artisti spesso parlano in primo luogo a sè stessi, e poi a quegli happy few che leggono, riflettono, capiscono e poi rispondono, parlando la lingua matta e disperatissima dell’arte contemporanea. Una lingua non verbale, apparentemente incomprensibile ed ermetica ai più, eppure, e forse proprio per questa sua grammatica tutta fatta di simboli e cifre, così in grado di penetrare, leggere e comprendere la realtà che ci circonda, raccontandola, anticipandola e riplasmandola come solo sanno fare i demiurghi dello spirito e della materia.
Così, sono sempre più frequenti mostre e performances di artisti contemporanei in siti e musei archeologici, in cui urgenza espressiva e fascinazione dell’Antico si combinano variamente in racconti visivi dal forte impatto estetico e mediatico: ma quanti, alla fine e al di fuori del circolo degli iniziati, tra i visitatori occasionali o abituali di questi luoghi sono veramente in grado di comprenderne i reali messaggi?
È sorprendente come anche gli archeologi a volte parlino una lingua aspra ed esoterica, che stenta a tradurre in racconto storico e risultato culturale a tutti comprensibile il lungo e faticoso percorso di conoscenza che accompagna ogni ricerca scientifica. Tecnicismi, un periodare volutamente oscuro, l’insicurezza a pubblicare e a divulgare, tipica di chi sempre teme di sbagliare, rendono a volte l’archeologo incomprensibile (e dunque culturalmente e socialmente poco utile). Come un artista contemporaneo, l’archeologo rischia di restare prigioniero di sé stesso e del suo piccolo mondo, che però esiste solo in virtù del riconoscimento della fondamentale e vitale utilità che la società tutta riconosce al Patrimonio Culturale. Senza la consapevolezza di questo patto sociale tra i cittadini e gli intellettuali (studiosi o artisti che siano), non scritto ma in qualche modo sancito dall’art. 9 della nostra Costituzione, ogni attività culturale non può andare oltre il personale diletto, l’appropriazione indebita, il classismo o la sopraffazione sociale.
È dunque un diritto dell’artista e dell’archeologo interpretare l’Antico, ma è anche un loro dovere saperlo mediare, tradurre, raccontare, condividere con tutti.

Negli ultimi tempi, gli esperimenti di arte contemporanea e archeologia sembrano essersi intensificati un po’ ovunque nella Penisola, come una moda che illude i curatori di essere à la page, i direttori di museo di aver finalmente trovato la chiave giusta per svecchiare luoghi della cultura rimasti per troppo tempo fermi a una museografia da antiquaria borghese. Non sempre, però, i progetti colgono nel segno. Tra maldestri tentativi di farsi pubblicità, sofisticati click bait e disinvolti usi dei contesti quali semplici location, coniugare archeologia e arte contemporanea può talvolta essere rischioso, al di là dello scintillante risultato di apparenza.
Il rischio più grande è sempre quello che l’Io del curatore e/o dell’artista fagociti il contesto, ovvero se ne appropri, più o meno pretestuosamente, per dare vita a una visione delle cose che prescinde dal carattere e dai significati dei luoghi, siano essi monumenti, aree, parchi o musei archeologici. O anche quando non ne prescinde, che il contesto resti solo sullo sfondo, lontano o estraneo allo sguardo del visitatore.
È un rischio insito nella natura stessa di questi luoghi. Nati come costruzioni artificiali di memoria culturale reificata, sono destinati a conservare le infinite storie dei nostri passati, spesso anonime e collettive. Storie, almeno fino a oggi, ricostruite col lungo e paziente lavoro dell’indagine storicistica, ovvero scientifica e razionale. L’esatto contrario del paradigma che oggi muove la gran parte dell’arte contemporanea, antistorica, decostruzionista, vigorosamente attualista. Un paradigma che diffida dell’esistenza di una storia oggettiva, distinta dal presente e ricostruibile nei suoi nessi e nei suoi sensi in forme scientificamente verificabili. Ma che tutto vive e ritiene esperibile solo nell’hic et nunc, nel qui e ora di un presente che tutto assimila e riassembla. La linea retta del tempo storico si fa circolare, i passati e le forme fisiche del tempo divengono materiali da prelevare in libertà, per costruire un presente che non ha la pretesa di essere troppo futuro. Ma che disseziona la complessità dell’oggi, evidenziandone le infinite componenti.
Come armonizzare dunque queste due antitetiche percezioni del mondo senza venir meno al dovere di rispettare e valorizzare entrambe, a beneficio di tutti?

Quando abbiamo iniziato a lavorare all’idea di una mostra sugli artisti del Virus Group al Drugstore Museum, subito si è posto il problema di verificarne l’effettiva compatibilità. Un museo archeologico, dall’aspetto e dal carattere particolarissimo, in dialogo con un piccolo gruppo di artisti poco noti al pubblico, ma solidamente inseriti nel panorama dell’arte contemporanea italiana: poteva funzionare?
L’idea nasceva da una ricognizione delle realtà culturali del Municipio XI - Arvalia, condotta nell’ambito delle attività istituzionali della Soprintendenza finalizzata alla tutela e alla valorizzazione. L’arte contemporanea intesa come lingua viva, strumento di conoscenza interiore e sociale, mezzo di emancipazione dei non luoghi e delle periferie, geografiche e mentali: un dovere per il nostro Istituto conoscerla, tutelarla e promuoverla sul territorio e a scala più ampia.
Il Virus Group lavorava già da qualche anno al Nuovo Corviale, annidato in uno dei tanti spazi di questo gigantesco falansterio assurto a simbolo polisemico di valore universale: di un’utopia sociale presto fallita, della violenza paesaggistica, del degrado, e, da ultimo, della voglia di riscatto di una comunità multietnica, la cui identità collettiva è definita dagli spazi di questo incredibile monumento della contemporaneità.
I laboratori del Virus Group avevano trovato ospitalità in alcuni grandi locali abbandonati del complesso de “Il Serpentone”, lentamente e con fatica riqualificati e attrezzati come spazi per la produzione e promozione artistica.
Qui, da anni, i vari artisti di questo collettivo spontaneo e autoproclamato, lavorano in comunione tra di loro, e in continua osmosi con gli abitanti del Corviale e di tutto il territorio. I laboratori e gli spazi dei singoli artisti si dislocano in un grande open space, mescolandosi e armonizzandosi come in un’unica fucina alla cui vita concorre ciascuno da par suo, ma anche il gruppo come entità collettiva mossa da comuni intenti. I cittadini passano, entrano, parlano, scherzano, chiedono, discutono, ridono, vivono con gli artisti, tutti i giorni. Si può assistere alla nascita delle opere, o alla morte di quelle mal riuscite, accompagnati dagli artisti stessi e da un bel bicchiere di vino, che gli stessi ospiti non mancano mai di offrire con squisita cortesia di altri tempi. L’arte qui è un fatto fisico, tattile, artigianale: sui caotici tavoli impolverati, la creatività prende forma grazie alla sapienza manuale degli artisti. Si può partecipare direttamente alla creazione, dal momento seminale al parto: un disvelamento dei segreti dell’artista che si fa rivelazione. Il fare artistico, non solo l’opera, entra così nel sangue e nella vita del quartiere, rigenerando luoghi e persone. La lingua dell’arte contemporanea si reifica, lasciando ai posteri tracce della cultura materiale della postmodernità.

La cultura visuale postmoderna, nella sua particolare e originalissima declinazione italica, è l’alveo in cui inquadrare storicamente gli artisti Virus. Penso in primo luogo al terreno dissodato da esperienze di rilievo internazionale come la Transavanguardia e l’Anacronismo. Ma, soprattutto, alle radici morali dell’esperienza del teatro d’avanguardia della Napoli degli anni Settanta, quella del Teatro dei Mutamenti di Antonio Neiwiller, che per alcuni degli artisti del gruppo è stato maestro, mentore e amico fraterno.
I quattro artisti in mostra sono saldamente radicati nell’humus dell’arte postmoderna, ciascuno col proprio personale percorso e con i propri tempi: Giulio Ceraldi, Consuelo Chierici, Stefano De Santis e Giancarlo Savinio parlano una lingua artistica comune, fatta di figurativismo, memoria stratificata, sogni, anticonformismo, ironia, gioco, dolorosi trapassi, evocazioni medianiche. L’urgenza comunicativa è portavoce di un’umanità larga e disinteressata, che affida all’artista un compito anzitutto sociale: fuori dalle logiche del mercato, al di là dei concettualismo e del circo mediatico dell’arte contemporanea mainstream, con un ritorno alla Tradizione voluto e simbiotico, Virus Group sente la responsabilità dell’arte quale missione sociale e collettiva, in cui il singolo, solo apparentemente stretto nel paradosso dell’ego isolato e creatore, ha un senso solo quale parte viva di una comunità. Dalla decostruzione dei linguaggi, dei sensi, delle logiche dell’arte di tradizione borghese del post seconda guerra mondiale, rinasce l’idea di un’arte per tutti: comprensibile nella sua grammatica e sintassi visiva, in grado di comunicare per simboli e palinsesti di immagini tra loro asincrone, messaggi, emozioni, perturbamenti. L’arte come esperienza e strumento cognitivo alla portata di tutti, anzitutto come esito di una manualità artigianale che si fa essa stessa lingua non verbale. Come in tutto il postmoderno, non c’è racconto didascalico, non c’è morale o edificazione: solo, per dirla con Fellini, precursore di ogni postmodernismo, fabbricatori di immagini, che compongono mappe visuali in cui il passato è carne viva del presente, simbolo reificato di valori o contenuti la cui invenzione è fatto tutto odierno. Guardando le opere degli artisti Virus, il tempo storico non solo da lineare si fa circolare, ma da circolare sembra alla fine assumere l’aspetto di un’ellisse fortemente schiacciata ai poli: intendo dire, tutto il passato storico è così vicino da sembrare perennemente attuale, tangibile grazie a un repertorio infinito di simboli e forme che dai più disparati contesti cronologici e geografici si presentificano a ogni sguardo.

Le opere del Virus Group esposte nella mostra sono in buona parte frutto della produzione recente degli artisti, realizzata nel clima generato dal primo incontro con lo spazio del Drugstore Museum, durante il difficilissimo periodo pandemico. Ci sono però, qua e là, anche opere storiche, a dimostrazione di una continuità e unitarietà di linguaggio che caratterizza tutte le lunghe vicende artistiche dei quattro protagonisti. Il Drugstore Museum è, malgré soi, uno spazio postmoderno in un certo senso ante litteram. Nato a seguito di un salvataggio d’emergenza in epoca in cui il patrimonio archeologico andava spesso distrutto nel silenzio dei più, il Drugstore coniuga in modo ossimorico antico e contemporaneo: l’antico nella forma inevitabile del frammento monumentale, immerso nella terra come mondo altro; il contemporaneo come guscio di cemento, il cui corpo discende dalla lingua architettonica degli anni del Boom, quella per intenderci dei Nervi e dei Morandi.
Inevitabile, dunque, la corrispondenza di amorosi sensi tra il museo e gli artisti Virus. Per certi versi, tutte le opere in mostra hanno in comune la stessa struttura anatomica del Drugstore Museum: un cortocircuito tra passato e presente, che attualizza la memoria attraverso immagini, simboli, visioni.
La ricognizione della memoria culturale stratificata nelle opere in mostra è operazione necessaria a una loro più piena comprensione. I riferimenti, però, sono talmente tanti e molteplici, che non sempre è facile individuarli: a volte si manifestano come citazioni, altre volte come riletture, altre ancora come travisamenti voluti e reinvenzioni. Eppure, osservando ogni opera con la dovuta calma, l’occhio ricava impressioni e suggestioni in grado di trasportarlo fugacemente nel tempo e nello spazio, in un altrove che è al contempo qui e ora, ma anche laggiù, e prima e dopo e sempre.

Giulio Ceraldi recupera la struttura medievale del polittico, per assemblare, con chiodini carta e lamierine, icone dal sapore post-futurista, ricche di suggestioni iconografiche direttamente riesumate dai repertori della mitologia classica, della preistoria, dell’etnografia extraeuropea, del linguaggio dell’astrattismo novecentesco. Come un novello Efesto, Ceraldi assembla e compone in sinfonie geometriche delle tavole laiche, i cui messaggi si trasmettono all’osservatore come un codice Morse. Ogni formella modulare è un lessema dell’intero messaggio composto in tabula. Astrazione, geometrie, ieraticità, iperrealismo: ogni formella batte la sua telegrafia visuale, fino a che l’insieme, come in una pala d’altare, non giunge a riempire lo sguardo cognitivo dell’osservatore. Anche nella scultura-installazione presente in mostra, Il golfo mistico, la logica è la stessa: l’artista mette insieme gli oggetti di un’archeologia mentale in cui convivono e rivivono simboli e racconti dei tanti passati dell’uomo.
Consuelo Cecchini, oltre a viaggiare nel tempo, viaggia nello spazio, fino a raggiungere quello cosmico. Là sembra ritrovare gli antichi dei sumerici, gli Anunnaki, migrati dalla Mezzaluna Fertile in un tempo lontanissimo, e planati in forma di missili antropomorfi su un pianeta dove tutto sembra essere più lento e più vero. Dritti, ben piantati sulla terra, hanno ali e volti di insetto: sono tutte donne, dee/astronaute, apparentemente mute, eppure parlano con tenui colori e il corpo istoriato di simboli esoterici. In altra stella della medesima galassia stanno i suoi lavoratori primitivi, proletari di una preistoria cosmica fatta di geometrie e luce. Su questa terra, o su una terra incognita di un mondo abbandonato, giacciono, in forma di polimaterici altorilievi, sorta di coperchi di sarcofagi o lastre di tombe a pavimento: quasi monumenti archeologici di una necropoli o di un santuario a cui il tempo ha ormai inferto le sue ingiurie.
Stefano De Santis parla la lingua più antica, quella della ceramica: una lingua ininterrotta che parte dalla nuda terra, si plasma tra le mani del demiurgo e prende vita grazie all’azione purificatrice del fuoco. Iconografie e soggetti suggeriti dal mondo classico e cristiano, sono rivissuti con spirito di invenzione formale originale: guardando di primo acchito le opere, si ha come l’impressione di una certa familiarità con la lingua scultorea di un certo Novecento italiano. Echi visivi e suggestioni formali di Martini, Marini, Mazzacurati o del primo Mirko Basaldella, ad esempio. Ma si tratta solo di spunti lontani, di un alfabeto visivo di base che De Santis ha assimilato e tradotto in un linguaggio affatto proprio, che sa raccontare la contemporaneità con la forza della tradizione. Il suo popolo in cammino, i suoi santi, il suo bestiario fantastico, animano un mondo in cui scorre una forza tellurica che si fa a volte magia leggera, a volte potenza ctonia.
Giancarlo Savino, come un antico pittore di chiese, predilige tele di grandi dimensioni, che popola di figure sempre in equilibrio prodigioso tra la mimesi e l’astrazione. Dispiegando tutto il repertorio delle tecniche possibili, compone squarci di mondi e visioni aperte sul sogno, o su una realtà che è vera solo come riflesso delle immagini mentali dell’artista. Anche in lui scorre sempre viva la Tradizione italica più recente: nella sua memoria visiva si colgono echi di Campigli, della Transavanguardia, ma anche del folklore dei suoi luoghi natali. La tavolozza dei colori si esprime nelle tinte del sogno, o in quelli della malinconia e del dolore. Il segno grafico è quello di un sismografo che registra l’intensità dell’esistenza: abbozza sagome di persone, intreccia vite e sentimenti, traccia emozioni e sentimenti come pattern che riempiono il campo figurato come metafora del mondo interiore. Nella scultura in terracotta, Savino si fa archeologo e restauratore: ricompone da frammenti inevitabilmente incompleti Grandi Madri, che sembrano sortite or ora da qualche scavo magno greco.

Alla fine della ricognizione, e guardando l’allestimento delle opere in contesto, ci auguriamo che chi visiti la mostra ne esca rinfrancato. Il museo e le opere, e dunque gli artisti, hanno assolto ai loro doveri, senza che a niente e nessuno ne venisse danno. Archeologia e arte contemporanea possono dialogare e arricchirci, anche muovendosi ai poli opposti di una scienza e di saperi antinomici. Basta restare, paradossalmente e proprio modo, nel solco della Tradizione. Quid velit et possit rerum concordia discors.

Bibliografia suggerita

M. Barbanera, Il museo impossibile, Roma 2013; F. Benzi, Eccentricità. Rivisitazioni sull’arte contemporanea, 1750-2000, Milano 2004; A. Bonito Oliva (a cura di), Michelangelo Pistoletto. Terzo Paradiso. La Mela Reintegrata, Milano 2016; P. G. Castagnoli, C. Strinati (a cura di), Mattiacci, Roma 2001; G. Celant (a cura di), Jannis Kounellis. Catalogo della mostra Venezia 11maggio-24 novembre 2019, Milano 2019; M. Cucchiara, Igor Mitoraj. Arte e mito nella Valle dei Templi, Palermo 2018; G. L. Marcone, “Introduzione all’arte di Anne e Patrick Poirier” in LANX, 7, 2020, pp. 217-239; Colin Renfrew, Figuring it out. What are we? Where do we come from? The parallel vision of artists and archaeologists, London 2003; S. Settis, Incursioni. Arte contemporanea e Tradizione, Milano 2020.