Insegnare pittura e scultura nelle Accademie? Fondamentale. Luca Bertolo risponde a Renato Barilli
L’artista e docente di pittura all’Accademia Luca Bertolo risponde a Renato Barilli sull’annosa questione delle differenze tra Accademie d’arte e Università. Ricordando che l’aspetto “del fare” è importantissimo per gli studenti delle Accademie
Mi ha sorpreso che nessuno abbia replicato al recente articolo in cui Renato Barilli affronta l’annosa questione delle differenze tra Accademie d’arte e Università. A suo dire, due sono gli ostacoli principali che ancora si oppongono alla completa parificazione tra le due istituzioni. Quanto al primo, e cioè il diverso trattamento economico, è difficile dargli torto. Come è noto, un docente di accademia prende all’incirca la metà di un professore universitario ordinario, e in generale molto meno di qualunque collega europeo. Un corollario meno evidente di questa situazione è che le accademie italiane non possono ambire ad avere professori stranieri. Ora, se adeguarsi al sistema universitario dei crediti è stata una questione burocratica, per adeguare gli stipendi accademici a quelli universitari lo Stato dovrebbe tirar fuori (investire) dei soldi. Sono decisioni squisitamente politiche e non credo sia cinico rilevare che i 27.000 studenti e i 2500 docenti delle accademie pubbliche costituiscano un bacino elettorale poco interessante rispetto a 1.800.000 studenti e a 150.000 docenti universitari. E comunque il meno che si possa dire è che da decenni i vari governi hanno fatto a gara tra chi tagliava di più i fondi per istruzione e cultura.
ACCADEMIE E UNIVERSITÀ A CONFRONTO
Ma veniamo al secondo elemento, ben più interessante, che secondo Barilli costituisce “quel fastidioso residuo diaframma che ancora divide le Accademie dalle Università”. Leggendo, sono saltato sulla sedia: “Le Accademie si fregiano, come di serti di gloria, degli insegnamenti di pittura e scultura, che però non hanno nessuna utilità pratica. Sarebbe come se i dipartimenti di italianistica pretendessero pure di insegnare poesia e narrativa, cosa da cui si guardano bene”. Roba forte. Cominciamo dalla fine: per quel (poco) che ne so, i corsi di scrittura rappresentano un fenomeno in continua crescita: abbondano nelle università statunitensi (lo Iowa Writing Workshop risale al 1936), sono presenti in quelle inglesi, irlandesi, ceche, tedesche e di altri Paesi extraeuropei; esistono persino corsi di laurea in Creative Writing. Se in Italia questo tipo di insegnamento è stato tenuto fuori dall’Università, non ne conosco le ragioni: scarsa scientificità del metodo? Banale esclusione a opera delle consorterie baronali? Sia come sia, moltissimi corsi e scuole di scrittura sono spuntati qua e là in tutt’Italia a partire dagli Anni Ottanta del Novecento, a opera di scrittori tutt’altro che marginali: da Giuseppe Pontiggia a Vincenzo Cerami, da Giulio Mozzi ad Alessandro Baricco, da Paolo Nori a Ugo Cornia.
“A differenza di un corso di fisica o filologia romanza, a un/a docente d’arte non è concesso, pena la propria irrilevanza, ignorare la dimensione esistenziale dei propri studenti”.
Ma torniamo alle belle arti. Il sistema delle Accademie italiane è antiquato e bisognoso di cambiamenti, è vero, come no. Per dirne una, sarebbe necessaria una maggiore autonomia dei singoli istituti, sia nell’offerta formativa che nella selezione del corpo docente. Per dirne un’altra, sarebbe ora di immaginare una più credibile articolazione dei corsi “di indirizzo”, la cui tradizionale partizione in “pittura” e “scultura” evidentemente non rende conto delle trasformazioni radicali avvenute nelle visual arts nell’ultimo secolo (arte concettuale, performance, estetica relazionale etc.). Va bene. Ma il professor Barilli mira al cuore: “In Accademia ci si ostina a insegnare scultura o pittura”, corsi che “non hanno alcuna utilità”. Ci si ostina?! È un po’ come dire che in Conservatorio ci si ostina a suonare il pianoforte o che in una scuola di cinema ci si ostina a fare delle riprese.
L’IMPORTANZA DEL “FARE” NELLE ACCADEMIE
In gioco c’è nulla meno che l’elemento identitario delle accademie d’arte, almeno dal XVII secolo in avanti. Sto parlando del laboratorio, quel luogo, fisico e metafisico al contempo, in cui dimensione materiale, ideativa, poetica, psicologica, patologica, filosofica, estetica, politica si amalgamano inestricabilmente tra loro. Con buona pace dei concettualisti all’acqua di rose o dei topi di biblioteca, la dimensione pratica non coincide, per un artista, con la semplice esternalizzazione di un’idea. No, no. Il fare, in arte, è un modo di pensare. L’arte è una pratica che produce teoria. Se i corsi teorici insegnati in Accademia ‒ storia dell’arte, estetica, psicologia dell’arte etc. ‒ possono essere paragonati a quelli universitari, a fare la differenza sono appunto i corsi cosiddetti pratici o teorico-pratici. È frequente che studenti migrino dal Dams all’Accademia proprio perché delusi dalla mancanza di “qualcosa di pratico”. Da alcuni anni insegno pittura (sic) all’Accademia: la nostra aula è diversa dalle altre, in cui si entra e per un paio d’ore si ascolta un/a professore/ssa che parla mentre alle sue spalle scorrono delle immagini videoproiettate. Non si tratta di meglio o peggio, è una modalità diversa. Nella nostra aula gli studenti dipingono, disegnano, creano manufatti di ogni tipo, appiccicano alla parete fotografie e foglietti con appunti ed epigrammi di ogni tipo, montano a computer una videoanimazione, si arrampicano su un soppalco per provare una performance. A ciclo continuo analizziamo insieme quello che hanno prodotto. Perché questa specie di arazzo funziona meglio senza le frangette? Chi riesce a spiegare perché questo brutto disegno è affascinante mentre quello, ben fatto, alla fine risulta inutile? La nostra aula, aperta per molte ore di seguito, per vari giorni, anche quando non c’è lezione (idealmente aperta sette giorni su sette), diventa una specie di casa, un luogo di partenza e approdo per gli studenti frastornati dal numero esorbitante di corsi del loro piano di studi. I ragazzi vanno e vengono. Mentre mangiano la pasta al pomodoro nella loro schiscetta chiacchierano delle loro faccende. Alcuni leggono: manuali, romanzi, saggi di parapsicologia. Una studentessa mi parla sottovoce della sua anoressia. Uno studente si scusa per un attacco di catatonia. A differenza di un corso di fisica o filologia romanza, a un/a docente d’arte non è concesso, pena la propria irrilevanza, ignorare la dimensione esistenziale dei propri studenti. Analizzare le opere, analizzare i sintomi. Come si costruisce un quadro felice? L’iconografia che circola abbonda di corpi femminili squartati, animali feroci, organi genitali, fiori, metamorfosi d’ogni ordine e grado, gattini.
“Il fare, in arte, è un modo di pensare. L’arte è una pratica che produce teoria”.
È del tutto legittimo avere dei dubbi sul fatto che un’Accademia possa produrre artisti ‒ io stesso ne ho molti ‒, è un tema serio e per nulla facile da articolare (lo fa James Elkins nel suo libro Why Art Cannot be Thought). Ma va ricordato che su cento studenti iscritti ad arti visive una settantina si diplomeranno e di questi solo una decina tenterà, per qualche anno, di “fare l’artista”. Se va bene, uno di quei dieci riuscirà ad andare avanti. E tutti gli altri? Beh, specialmente quelli/e che lavoreranno in ambito culturale lo faranno con una consapevolezza diversa rispetto ai loro colleghi universitari, magari più colti, che di arte e cultura hanno avuto per lo più un’esperienza di seconda mano. È una sorta di biodiversità culturale che va preservata. Già, e sarebbe interessante ascoltare altre voci su questi temi, tra cui quella degli studenti. L’arte si ostina a essere difficile da trattare, per nostra fortuna.
Luca Bertolo
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