Intervista a Gian Paolo Barbieri, fotografo anticonvenzionale della moda
In mostra a Milano alla galleria 29 ARTS IN PROGRESS e nelle sale cinematografiche con il docu-film a lui dedicato, il fotografo Gian Paolo Barbieri ha risposto alle nostre domande chiarendo che cosa lo lega alle arti visive e al cinema
Quando si pensa a coloro che occupano un posto nell’Olimpo della moda, è doveroso ricordarsi di Gian Paolo Barbieri. Nato in via Mazzini a Milano nel 1938, prende parte alla Dolce Vita romana durante gli Anni Sessanta e, successivamente, trova il proprio spazio nel fashion system grazie proprio alla fotografia. Appare sui magazine più patinati, come Vogue America, Paris e Italia, e crea alcune tra le campagne pubblicitarie più note del secolo scorso, da Maison Valentino ad Armani, senza tralasciare Versace e Dolce & Gabbana. Una vita da film, la sua, che è possibile ripercorrere nelle sale cinematografiche italiane grazie al docu-film L’uomo e la bellezza, prodotto da Wanted Cinema e già vincitore del Premio del pubblico al Biografilm Festival 2022.
Fino al 25 marzo 2023, lo si può trovare anche alla galleria 29 ARTS IN PROGRESS di Milano con una mostra in suo onore, Gian Paolo Barbieri: Unconventional, per celebrare la sua produzione artistica meno nota, ricca di riferimenti alla storia dell’arte e di citazioni cinematografiche.
“Mi emoziona sempre pensare come i miei collaboratori, Emmanuele Randazzo e Giulia Manca, abbiano creduto fin dall’inizio in questo progetto che poi è cresciuto e si è esteso grazie a Emiliano Scatarzi, Federica Masin e Moovie production con Caterina Teoldi e Irina Galli”, afferma Barbieri, che poi continua: “Inizialmente ero un po’ restio; anche se in passato può essere sembrato diverso, non amo essere dall’altra parte dell’obiettivo, soprattutto per raccontare la mia storia. Ma riuscirono a convincermi e devo dire che sono molto felice, sarebbe stato un gran rimpianto non aver iniziato e portato a termine questo percorso”. Così uno dei più grandi fotografi di moda del Novecento reagisce alla visione di sé stesso sul grande schermo, sperando che il suo lavoro “possa essere fonte di ispirazione per i giovani fotografi, fungendo da guida per questo percorso sempre più difficile e complesso. È importante non smettere mai di credere in ciò che si ama o che si scopre di amare. La scoperta è il motore principale che muove la conoscenza, necessaria per i cambiamenti e l’evoluzione. Storia, letteratura, arte, cinema, teatro sono sempre stati i compagni dei miei viaggi, elementi essenziali per continuare a crescere fino alla fine”.
INTERVISTA A GIAN PAOLO BARBIERI
Lei ha contribuito all’emancipazione del corpo femminile, ma cosa ha reso realmente possibile tutto ciò?
Ho sempre guardato la donna come una creatura di imprescindibile bellezza d’animo.
Mi sono sempre trovato in sintonia con le modelle con cui ho lavorato, erano modelle, ma prima di tutto erano donne. Ho sempre amato la loro eleganza, quella che emergeva dall’animo, e ho sempre cercato di valorizzare questo aspetto. Quando iniziavo a scattare, spesso il primo rullo lo mandavo a vuoto per farle scaldare e instaurare fiducia tra me e loro. Poi a un certo punto i miei occhi percepivano la bellezza e l’eleganza innalzarsi dal loro animo, ed era lì che scattavo davvero.
Quale aspetto della figura femminile voleva far emergere?
Era ciò che cercavo durante ogni servizio, il raggiungimento di quella forza che le distingueva l’una dall’altra, cercando di mostrarle come le vedevano i miei occhi. Imprimevo il loro carattere per lasciarlo alla storia.
Cosa crede che quei tempi avessero in più rispetto ai nostri?
Da quando la moda porta questo nome, è sempre stata il linguaggio universale attraverso cui le persone hanno misurato e modificato la propria efficienza estetica, con l’obiettivo di arrivare a essere desiderate dai propri simili. La moda è ciclica, torna e va per poi tornare ancora. In questo momento storico c’è un particolare attaccamento agli Anni Ottanta e Novanta, ma uno sguardo che per la maggior parte dei casi si concentra soltanto sull’estetica di quegli anni è un modo per mantenere intatto un filo che ricolleghi il nostro mondo con quelli che non esisteranno più. Si cerca di far respirare ancora, attraverso la materia, un tempo che ha determinato molti di noi.
Perché per alcuni le celebrità contemporanee sembrano valere meno di quelle di ieri, come per esempio Monica Bellucci, da lei fotografata?
La società di adesso è più ricca di sfaccettature: è più semplice diventare un’icona o un punto di riferimento per qualcuno, anche grazie alle nuove tecnologie che hanno sviluppato i mezzi di comunicazione che alimentano la velocità a cui viaggiano le notizie. Un tempo le icone erano molte meno ed era sicuramente più complicato guadagnarsi quel riconoscimento; vi erano parametri più selettivi e diversi da quelli di oggi e arrivare a mostrarsi implicava uno sforzo molto elevato, il raggiungimento della fama era un arduo percorso.
LA FOTOGRAFIA SECONDO GIAN PAOLO BARBIERI
Oggi tutto ciò che è vintage piace. Coglie una differenza tra il suo approccio e quello odierno?
La libertà che il fotografo possedeva un tempo era totalmente diversa da quella che oggi non ha. Il creativo era il fotografo, e il dialogo che instaurava con lo stilista era molto più forte: aveva la possibilità di dare spazio alla sua creatività. Ed è proprio grazie a questo che ebbi la libertà di drappeggiare addosso a Audrey Hepburn gli scialli di Valentino a Roma, nel 1969. Mi sono sempre occupato di tutto, ogni servizio aveva dietro uno studio dettagliato e non lasciavo nulla al caso. C’è stato un cambiamento drastico dall’analogico al digitale: da un lato adesso c’è molta più facilità nel fare fotografia, dall’altro si è persa quella poesia che c’era nell’utilizzare il negativo. Chi inizia a fare fotografia oggi è molto più facilitato.
Mi spieghi meglio questo aspetto.
Una volta si doveva fare uno studio per capire quale pellicola utilizzare, quale carta e che sviluppo fare. Prendendo in mano una fotografia analogica, si riusciva a riconoscere uno stile ben preciso, una personalità. Ora lo stile è cambiato, ma il mio approccio è stato sempre lo stesso: concepisco la fotografia come un fatto culturale. Deve rispecchiare la bellezza, perché, come dicevano i Greci, dove nasce la bellezza nasce anche la ragione. La fotografia deve sedurre, attirare. Il lavoro della fotografia è un lavoro di arti visive e, per quanto mi riguarda, mi sono rifatto molto alle sculture, alla pittura e al cinema soprattutto. Queste arti hanno formato il mio sguardo per la composizione, lo stile e la luce. Il cinema noir americano degli Anni Quaranta e il Neorealismo italiano sono stati significativi per me. Poi c’è il fattore della memoria che trasmette, incamera e fa sì che tutto ciò che hai studiato o osservato emerga nel momento della creazione.
Lei ha mai cercato di diffondere ideologie politiche mediante le sue fotografie?
Non ho mai utilizzato la mia fotografia come denuncia sociale o politica, ma piuttosto come strumento di memoria, in particolare nella fotografia etnica. L’archivio di moda poi è divenuto uno strumento di ricerca molto potente dagli Anni Sessanta a oggi, inconsapevolmente ho partecipato a plasmare una testimonianza della nostra società.
BARBIERI E IL CINEMA
Perché allora esalta il bello e non il brutto, il disturbante? Cosa pensa che la bellezza possa esprimere a differenza della bruttezza?
La mia impostazione più classicista ha sicuramente inciso sulla mia tendenza nel ricercare un concetto di bellezza che più si avvicinasse a quello ideale. Ma non ho mai inteso la bellezza come paradigma di bello; non esiste un bello oggettivo, ho sempre voluto far scaturire una reazione di fronte alle mie foto, è questo ciò che mi interessa.
Con il cinema il legame è forte, così ha affermato spesso, ma con l’arte figurativa? Il suo approccio è quello di un eclettico, che spazia dal Surrealismo (Isa Stoppi in Coppola e Toppo, Milano, 1968) al Fauvismo alla Matisse (Vivienne Westwood, Londra, 1998), senza tralasciare l’astrattismo (Mariolina Della Gatta, Milano, 1965). Sono solo idee mie o c’è qualcosa di fondato?
L’arte in tutte le sue espressioni è sempre stato l’elemento che mi ha permesso di vivere e sopravvivere. Fin da piccolo ogni spunto che trovavo visitando mostre, leggendo libri di storia dell’arte o semplicemente girando per Milano, era una finestra su un altro mondo che mi permetteva di imparare e creare. Mi recavo in galleria Vittorio Emanuele e compravo delle cartoline di dipinti famosi da cui prendevo ispirazione per i miei disegni che poi rivendevo d’estate a Santa Margherita Ligure per guadagnarmi un po’ di soldi. Mi nutrivo di figure e di colori che poi cercavo di riportare nella fotografia. In particolare adoro la pittura, ho dipinto diverse cose e lo stile di Gauguin è quello che mi ha sempre appassionato di più. In fotografia invece ho cercato di simulare l’effetto della pittura a olio mettendo sull’ottica della vasellina; spesso le scenografie le dipingevo io: costruivo delle vere e proprie ambientazioni che ricordassero qualche dipinto in particolare o lo stile di un pittore che amo. Come ad esempio la campagna realizzata per Vivienne Westwood nel ’98: lo scatto in mostra rappresenta una ragazza seduta all’interno di una stanza di Matisse. Definirei quindi l’arte come il motore della mia fotografia, senza questa avrei una visione ridotta del mondo.
Giulio Solfrizzi
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