Colore, storia, cultura. Parola all’artista Yasmina Alaoui

Ci sono la formazione scientifica e una passione per l’arta sbocciata in maniera casuale nella storia di Yasmina Alaoui, in mostra alla galleria Anna Marra di Roma. Ma soprattutto c’è il dialogo fra culture e ricordi di una vita vissuta fra il Marocco e il resto del mondo

L’indaco non è semplicemente un colore. È anche uno “spazio emozionale” in cui s’incontrano storie e leggende. Certamente è il colore che identifica i membri del popolo Tuareg, i quali usano questo pigmento naturale (estratto dalle foglie della Indigofera tinctoria) per tingere la lunga striscia di cotone (tagelmust) con cui si avvolgono il capo lasciando scoperti solo gli occhi. Una protezione dal sole e dalla sabbia del Sahara, soprattutto durante le frequenti tempeste. Sono detti “uomini blu” perché la tintura del tessuto, proprio per le sue proprietà naturali, tende a lasciare tracce di pigmento sulla loro epidermide. Questa caratteristica di instabilità o mobilità dell’indaco, un colore di per sé vivo, organico, per il modo in cui cambia nel tempo, è anche il motivo per cui Yasmina Alaoui (New York, 1977; vive a Marrakech) lo impiega spesso nelle sue opere.
È un elemento determinante, infatti, in Blue Plaster Square #1 (2017), parte della collettiva Between Now and Then. The Moroccan Wave, curata da Silvia Cirelli alla galleria Anna Marra di Roma. L’artista franco-marocchina, che espone per la prima volta in Italia, è particolarmente interessata ai materiali che trova in loco. Nel deserto che circonda Marrakech ha raccolto anche delle ossa di cammello che ha lasciato bollire per ore prima di incorporarle nell’opera, realizzata in negativo. Sulla superficie della tela quadrata elementi naturali dialogano con altri artificiali, iconici come la stella a otto punte (nata dalla sovrapposizione di due quadrati a 45°, ha valenza simbolica in numerose culture, tra cui quella islamica, che la associa a un simbolo di perfezione, usandola nel Corano per indicare la fine di un capitolo), o incontrati casualmente. Quanto basta per esaltare l’ambiguità della rappresentazione e indirizzare lo sguardo dell’osservatore verso un’esplorazione più intima e soggettiva.

Yasmina Alaoui da Anna Marra Contemporanea, Roma 16 novembre 2022. Photo Manuela De Leonardis

Yasmina Alaoui da Anna Marra Contemporanea, Roma 16 novembre 2022. Photo Manuela De Leonardis

INTERVISTA A YASMINA ALAOUI

Qual è la relazione tra l’uso di materiali come pigmenti naturali e colori acrilici, sabbia, sale, ghiaia e la tua ricerca formale che vira verso l’astrattismo?
Di base il mio approccio è scientifico. Ho studiato Biologia, Antropologia e Geologia al College of William and Mary a Williamsburg, in Virginia. L’arte è arrivata dopo. Come artista ho portato tutto questo bagaglio nel mio lavoro attraverso i materiali. Sono molto interessata ai pigmenti che si trovano sul posto, alle tradizioni locali. Inizialmente, a New York, ho lavorato con la fotografia, ma quando sono andata in Marocco ho cominciato a interessarmi ai materiali che ho trovato lì. Il mio approccio è un mix tra l’educazione, in particolare i miei studi di geologia, e i materiali che trovo.

E per quanto riguarda il richiamo all’astrattismo?
L’astrattismo deriva dal fatto che proprio per via degli studi biologici, scientifici e matematici il mio apprendimento è molto strutturato, schematico. L’organizzazione geometrica proviene dalla tradizione islamica, ma allo stesso tempo ho voluto rompere con essa. L’astrattismo è certamente collegato con la rappresentazione islamica non figurativa, ma nel mio caso si è trattato di creare una rottura. Tutto quello che faccio è legato al mio appartenere a due culture: mia madre è franco-italiana e mio padre marocchino. Gli elementi di queste culture fanno parte del mio lavoro.

Ordine e disordine sembrano i due poli da cui parti per esplorare temi esistenziali.
Ancora una volta torniamo alla mia storia personale. Da una parte c’è la mente matematica e razionale da cui cerco di prendere le distanze, sia come artista sia nella mia vita privata. Dall’altra ci sono così tanti livelli di sedimenti che cadono di volta in volta.

Vista la tua formazione scientifica, quando hai deciso di fare arte?
L’aspetto scientifico è qualcosa che mi appartiene. Dal punto di vista creativo, per molti anni ho fatto la film editor, un lavoro in cui c’è molto dell’approccio organizzativo che proviene dalla mia formazione. La mia carriera artistica però è iniziata in maniera del tutto inaspettata quando ho incontrato il mio partner [il cileno Marco Guerra, N.d.R.] che è fotografo di moda e insieme abbiamo creato una serie di lavori con le sue foto e i miei disegni. Se la scienza era la mia parte razionale, l’arte è stato un luogo paradisiaco sicuro. Una galleria ha preso quei lavori e quel progetto non si è mai fermato. Sì, quella dell’arte non è stata una decisione consapevole. Avrei certamente voluto una carriera in ambito scientifico, ma mi sono ritrovata ad avere successo in ambito artistico.

Hammam Memories, 2008, courtesy Yasmina Alaoui e Marco Guerra

Hammam Memories, 2008, courtesy Yasmina Alaoui e Marco Guerra

LE OPERE DI YASMINA ALAOUI

Il lavoro a cui fai riferimento è la serie 1001 Dreams con i disegni sui corpi femminili e anche Hammam Memories, legato ai tuoi ricordi di bambina quando tua nonna paterna ti portava all’hammam.
Sì, sono ricordi d’infanzia. Sono cresciuta in Francia ma a undici anni sono andata in Marocco: mondi veramente diversi. In Marocco ho scoperto una società matriarcale con donne al comando. Tutto quel lavoro è basato sui miei ricordi di bambina intorno a mia nonna e alle mie zie dal lato paterno: andare all’hammam o preparare il pane ogni mattina. Quel genere di tradizioni quotidiane che in Francia non esistono affatto. Facevo disegni liberi, astratti e naïf come quelli che facevo a sei anni. Non c’era alcuno studio. Dato che il mio partner è fotografo, ho semplicemente iniziato a dipingere sulle sue fotografie. All’epoca ‒ era il 2002-2003 ‒ non c’era molto in ambito di mixed media né di figurativo e l’attenzione al corpo era in una chiave pessimistica, sarcastica, negativa. Ho voluto condividere la bellezza del corpo dipingendovi sopra, cosa che ho trovato molto attraente, mescolando la fotografia classica in bianco e nero con i miei disegni astratti. Da una parte, però, c’era anche la necessità di coprire con la pittura quei corpi nudi.

In che senso necessità di coprire quei corpi?
Amo la fotografia di nudo, ma forse inconsciamente, essendo cresciuta in Marocco, sentivo la necessità di nascondere la loro nudità come forma protettiva. C’è anche un collegamento all’uso dell’henné. Come dicevo prima, qualunque cosa faccia è un insieme di riferimenti che provengono dalle mie diverse culture d’appartenenza.

I colori hanno un significato simbolico per te?
In Blue Plaster Square #1 ho usato il nila (indaco) perché è un colore mutevole, ma quasi sempre la scelta dei colori dipende dal tema. Nel nuovo lavoro Tar, che è legato al tema della fertilità, ho scelto il nero perché nel Marocco tradizionale, quando le donne non possono avere figli, vengono emarginate, lasciate in strada, coperte e sporche; mentre nella prima serie di “sedimenti” ho scelto il rosso perché era collegato al sangue. Il verde, poi, è un colore che ho sempre amato. Dopo la morte di mia sorella, la prima opera che ho realizzato era verde perché stavo male e avevo bisogno di una speranza. Però solitamente, a parte questa relazione con mia sorella, i significati non sono mai personali ma legati all’uso dei materiali.

LA POETICA DI YASMINA ALAOUI

A proposito di tua sorella Leila, uccisa nel 2016 in un attentato terroristico a Ouagadougou, in Burkina Faso, il tuo modo di lavorare a storie non visibili crea un ulteriore collegamento con il suo modo di raccontare il Marocco, pensando alla serie fotografica Unseen stories?
Sono più grande di mia sorella [Leila Alaoui era nata nel 1982, N.d.R.] e facevo già l’artista quando lei ancora studiava, quindi non c’è alcun collegamento. Probabilmente è avvenuto il contrario. Il desiderio di raccontare storie non visibili forse deriva dal fatto che, se prima viaggiavo con la famiglia e con il mio partner, ora lo faccio da sola e anche il mio approccio al lavoro è cambiato. Non il lavoro in sé, proprio il mio modo di pormi.

Quanto sono importanti per te la metodologia e il lavoro in studio?
Non ho una metodologia. Quando ho un’idea la realizzo cercando ciò che mi occorre. Ho ancora uno studio a New York e altri a Marrakech, ma certe volte non sono in nessuno studio.

È molto importante anche l’approccio istintivo.
Sì. Ho iniziato la carriera artistica da un’intuizione. Ho sempre fatto quello che volevo fare. Anche quando i lavori fotografici erano molto richiesti, da un momento all’altro ho deciso di cambiare stile, materiali. Amo quello che faccio finché lo faccio, poi ho la necessità di passare ad altro. Devo essere io per prima interessata, devo farmi delle domande e pormi in situazioni che non sono confortevoli. Ci sono artisti che amano ripetere e ripetere lo stesso lavoro, come una firma. Io non sono quel tipo di artista, ho bisogno di cambiare.

Progetti futuri?
Ho almeno diecimila progetti. Fino a due anni fa vivevo a New York, poi per via del Covid ho deciso di rimanere in Marocco e avere l’occasione di viaggiare attraverso il Paese per scoprire vecchie tradizioni, immergendomi sempre più profondamente in questa cultura.

Manuela De Leonardis

https://www.yasminaalaoui.com/

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Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis

Manuela De Leonardis (Roma 1966), storica dell’arte, giornalista e curatrice indipendente. Dal 1993 è iscritta all’Ordine dei giornalisti del Lazio e dal 2004 scrive di arti visive per le pagine culturali del manifesto e gli inserti Alias, Alias Domenica, ExtraTerrestre.…

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