C’è arte dopo l’atomica?

La possibilità di una guerra atomica è aumentata pericolosamente negli ultimi mesi. Ma come reagisce o reagirebbe l’arte a una tragedia di questo tipo?

Uno spettro si aggira per l’Europa, lo spettro della bomba atomica. Nel suo Diario di Hiroshima il medico giapponese Michihiko Hachija ricorda il 6 agosto del 1945 quando gli americani sganciarono la prima bomba atomica: “I loro volti non esistevano più. Occhi, naso, bocca, tutto era stato mangiato dal fuoco, e pareva che le orecchie si fossero liquefatte; non si capiva più quale era il volto e quale la nuca”. Per questo crimine (impunito) lo storico Daniel J. Goldhagen ha scritto che “Harry Truman, trentatreesimo presidente degli Stati Uniti, era un assassino di massa”. I giapponesi ormai erano sul punto di crollare e la bomba atomica non aveva alcuna ragione di essere utilizzata. Nel 1965 il giornalista americano Richard Hofstadter osservava che i crimini di Stalin sono serviti per giustificare quelli degli americani. Oggi, la guerra che i russi hanno scatenato in Ucraina – e che la Nato, da parte sua, conduce per procura tramite Zelensky, al quale oltre le armi fornisce pure un accanito ecumenismo dell’odio – sta arrivando a un punto di non ritorno. Lo spettro del nucleare, dopo 78 anni, rischia di materializzarsi.

“Dopo la Seconda Guerra Mondiale siamo diventati incapaci di pensare politicamente la catastrofe nucleare globale, se non tramite le fiction”

Siamo quelli che esistono ancora”, osservava il filosofo della tecnica Günther Anders nel 1961. Seguendo questa affermazione si può dire che la domanda centrale per l’umanità, ieri come oggi, non è “come dobbiamo vivere?” ma “vivremo ancora?”, in quanto questo nemico assoluto e globale – la bomba atomica, tattica o strategica che sia – è il nemico di tutta l’umanità, non di una parte di essa. In genere in una controversia ci sono i pro e i contro. Ma come il nazismo e il fascismo, che per i loro progetti di sterminio razziale non sono opinioni, ugualmente l’arma nucleare non è un argomento di controversia. Le discussioni che insistono sulla rinuncia al negoziato si basano su un solo assunto, che era sorprendentemente quello dei filosofi Karl Jaspers e Leo Strauss, per i quali “la minaccia totalitaria può essere neutralizzata solo con la minaccia della distruzione totale”, che indirettamente sembra un assist verso Putin. Ma dal momento che la bomba atomica è stata impiegata dagli americani senza che vi fosse una reale giustificazione, questa argomentazione è falsa. E, oggi, riesumare questo argomento è un gesto suicida e criminale.

LA MINACCIA DELL’ATOMICA IERI E OGGI

D’altra parte, la mancanza di uno sguardo che si affacci sul mondo con un’ampia prospettiva fa cadere questo sguardo entro i limiti di un orizzonte che coincide con l’egemonia di interessi economici e militari sovra-nazionali. Mentre questo stesso orizzonte almeno dovrebbe coincidere con quello della nostra responsabilità entro la quale dovremmo sapere che potremmo colpire, ma anche essere colpiti. Che l’idea di pace possa essere un termine sospettato e perseguitato è il segno di una cultura politica imbecille e paranoica, che vede intorno a sé solo forze demoniache.
E non è da trascurare il fatto che dopo la Seconda Guerra Mondiale siamo diventati incapaci di pensare politicamente la catastrofe nucleare globale, se non tramite le fiction, a cui abbiamo delegato questo compito, liberandoci di ogni responsabilità verso il presente e il futuro. In altre parole: se la minaccia e la paura deformano, la fantasia – paradossalmente – è realistica. Questa minaccia, oggi, non viene dallo spazio, ma dall’uomo. L’arcano della verità riposa solo nelle fiction sulla fine del mondo, facendo dell’immaginazione un organo della verità.

Enrico Baj, Montagna con sole, 1957. Museo del Novecento, Collezione Boschi Di Stefano © Comune di Milano. Photo Mauro Ranzani

Enrico Baj, Montagna con sole, 1957. Museo del Novecento, Collezione Boschi Di Stefano © Comune di Milano. Photo Mauro Ranzani

L’ARTE E LA MINACCIA ATOMICA

Nel 1946 Breton in una intervista ricorda che, dopo il lancio delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki, gli psicologi americani “davano per ineluttabile e molto vicina una profusione di opere di pura disperazione e di follia”. In effetti, subito dopo molti artisti fecero della disintegrazione nucleare l’analogo della disintegrazione della materia dell’arte. Nel 1945 il pittore surrealista Dalí (che volle vedere nel dittatore Franco un camerata surrealista) dipinse Idillio atomico e uranico, un incubo nucleare dove una testa in primo piano è occupata da un bombardiere che sgancia bombe. Nel 1950 il futurista Depero licenziava un Manifesto della pittura plastica e nucleare, rivedendo il mito futurista della tecnica, e dove si può leggere che “le meraviglie atomiche e nucleari, le potenze aereodinamiche, subacque, terrene e stratosferiche dovrebbero far meditare e riflettere anche i tecnici, gli artefici ed i giudici dell’Arte e dell’Estetica”. Un anno dopo Enrico Baj e Sergio Dangelo fondavano il Movimento Nucleare. In una conversazione che ebbi con Baj nel 2000, mi riferì che il senso di quel manifesto era animato dalla convinzione che le teste degli uomini somigliano a bombe vaganti, pronte a esplodere in determinate circostanze.
Oggi la rassegnazione generalizzata verso lo stato di cose presenti è l’ultima ideologia, dove alberga beatamente il sogno – parola molto battuta oggi anche nell’arte – che somiglia a un oppiaceo o all’ultima dolce sinfonia prima della fine.

Marcello Faletra

Articolo pubblicato su Artribune Magazine #69

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Marcello Faletra

Marcello Faletra

Marcello Faletra è saggista, artista e autore di numerosi articoli e saggi prevalentemente incentrati sulla critica d’arte, l’estetica e la teoria critica dell’immagine. Tra le sue pubblicazioni: “Dissonanze del tempo. Elementi di archeologia dell’arte contemporanea” (Solfanelli, 2009); “Graffiti. Poetiche della…

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