Milano, metti un pomeriggio d’agosto al Pac. Quando il museo se ne infischia del visitatore. Servizi assenti e opere non funzionanti. “Meno male” che era quasi vuoto…
Milano, 25 di agosto, ore 14. Strade quasi deserte, la solita afa, il caldo umido di sempre. Aggirarsi a quell’ora in centro, tra le piazze assolate e le arterie soffocanti della metro, ti mette abbastanza alla prova. Eppure sei di passaggio e decidi di andare al Pac, per goderti la tanto chiacchierata-celebrata-criticata mostra di Elad […]
Milano, 25 di agosto, ore 14. Strade quasi deserte, la solita afa, il caldo umido di sempre. Aggirarsi a quell’ora in centro, tra le piazze assolate e le arterie soffocanti della metro, ti mette abbastanza alla prova. Eppure sei di passaggio e decidi di andare al Pac, per goderti la tanto chiacchierata-celebrata-criticata mostra di Elad Lassry. Arrivi in Via Palestro, dopo una lunga camminata, e la prima cosa che pensi di fare è sederti a un bar e dissetarti. Niente di più semplice. Se non fosse che di bar, in tutto il circondario, non ce n’è nemmeno l’ombra. Per trovarne uno occorre addentrarsi – sapendolo – dentro al parco antistante. Poco male: si entra al museo e si fa subito tappa in caffetteria. E invece ti rendi conto che, al Pac, la caffetteria non esiste. O meglio, esisteva fino a qualche anno fa, al primo livello – come ci conferma una garbata custode – ma poi, chissà perché, l’hanno dismessa e mai più riattivata. Oggi l’accesso al piano è interdetto da una tristissima cordicella che sbarra la scalinata.
Ma come? Non è questo uno dei servizi basic garantiti da ormai tutti i musei del mondo? E soprattutto, quanti soldi farebbe un buon punto ristoro in una zona come questa, dove manca persino il baretto del quartiere? Si chiamerebbe imprenditoria, gestione intelligente della domanda e dell’offerta. E invece, l’ennesima occasione mancata.
Ma andiamo avanti. Accantonata l’idea utopica di concedersi una bibita ghiacciata, ci si fionda tra le sale espositive. Due visitatori in tutto, tante foto e quattro video. Tutti spenti. Sì, avete sentito bene. I proiettori 16mm non funzionano. Anzi, uno è sparito proprio. C’è solo il parallelepipedo bianco che lo sorreggeva e che ora assomiglia a un mesto cimelio: memento della mostra che fu e testimonianza dell’inefficienza che è. Gli altri tre? Due sono rotti e uno, dopo le nostre proteste e i gentili tentativi della custode di cui prima, alla fine riesce a partire. Ma, ci confida la donna, lo tengono quasi sempre spento “per evitare che si guasti…”. Economizzare le poche risorse rimaste: il personale fa quel che può.
Mostra monca, caffetteria fantasma, consoliamoci col catalogo. Magari. Nessun volume è stato pubblicato per documentare la mostra, nemmeno un librettino, un quadernino, niente. Giusto un pieghevole con tre fotine e il testo di Alessandro Rabottini. Mancanza di fondi? Forse. E allora proviamo a comprarci un altro libro, già che ci siamo. Niente da fare. Il bookshop – che poi è giusto un corner unificato con la biglietteria – non esiste nemmeno lui. Il corner medesimo è invaso dai depliant, ma non ci sono libri né merchandising. Com’è possibile? Interrogando la custode, scopriamo che per ogni mostra il servizio viene dato in gestione alla casa editrice che produce il catalogo. E se catalogo – come in questo caso – non ce n’è, allora non c’è nemmeno il bookshop. Desolazione massima.
Mala tempora currunt, anche in pieno regno Pisapia. E va bene la crisi, va bene che è agosto, va bene che Milano non è una città facile, ma la sensazione di abbandono registrata ieri l’altro, in un museo praticamente vuoto, senza pubblico, senza servizi e con mezza mostra non funzionante, ci augureremmo di non provarla mai più.
– Helga Marsala
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