Contro le gerarchie culturali. Mariana Castillo Deball in mostra a Genova
Rimandano all’arte mesoamericana le opere di Mariana Castillo Deball in mostra da Pinksummer a Genova. Un invito a decolonizzare lo sguardo e a interrogarsi sulla superficie delle cose
Il poeta John Ashbery scriveva nel 1974 che non si può dare nome alla superficie delle cose, o, meglio ancora, che la superficie delle cose non si può dire. E Mariana Castillo Deball (Città del Messico, 1975) mette a tema questa affermazione con la sua poetica: la superficie non potrà forse dirsi, eppure è lì per essere esperita, per fare da ancora alla conoscenza degli oggetti.
In a convex mirror, la personale di Castillo Deball inaugurata da Pinksummer il 2 dicembre scorso, propone di iniziare a sciogliere questo nodo ragionando su due temi: la forma e l’esposizione. Il white cube della galleria genovese diventa un set in cui giocare con la percezione del visitatore, per smontare i costrutti culturali che legano l’apparenza di un oggetto al suo presunto valore.
LA MOSTRA DI MARIANA CASTILLO DEBALL A GENOVA
Le pareti della galleria sono punteggiate da nerissimi tondi di cera, incisi con disegni elaborati dal frate missionario Diego Valadés per evangelizzare i popoli dell’America centrale. Le immagini stilizzate di serpenti, scorpioni, persone e creature immaginarie sono realizzate come se le si stesse guardando attraverso una lente convessa. In questo modo la suggestione dell’Autoritratto entro uno specchio convesso (1574) di Parmigianino incontra l’arte mesoamericana sulla superficie della cera, incisa secondo l’abitudine degli antichi romani di usare tavolette in questo materiale per scambiarsi messaggi effimeri.
LE OPERE DI MARIANA CASTILLO DEBALL DA PINKSUMMER
La stratificazione raffinata di provenienze, storie e costumi è altrettanto complessa nell’installazione site specific di un intrico di ceramiche appese al soffitto grazie a una spessa corda di cotone nera. I vasi decorati a ingobbio perdono la loro funzione di contenitori, essendovi praticato il cosiddetto kill hole, ossia una peculiare foratura legata ai riti funebri tipici di diverse popolazioni indigene americane; sono inoltre modulari, incastrati l’uno nell’altro con una reminiscenza della bottiglia di Klein, in cui l’orientamento dell’oggetto si perde nell’impossibilità di distinguere tra dentro e fuori. Le ceramiche restano sospese nel loro dato materiale e decorativo, rifiutando la classica esposizione a vetrina, che ne farebbe dei piccoli token folkloristici; l’artista le sottrae in un colpo solo all’usuale collocazione nello spazio museale e nella prospettiva storica, così come previsto dall’egemonia eurocentrica.
La superficie delle cose per Castillo Deball è il luogo fisico dell’incontro tra lo sguardo e tutte le storie dell’oggetto, il punto di equilibrio vivacemente instabile di tutte le tensioni che informano la realtà.
Corinna Trucco
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