Troppe informazioni: il malessere che colpisce il mondo dell’arte
Sarà capitato anche a voi di sentirvi annoiati o delusi ancora prima di aver visto una mostra o assistito a una performance. Accade quando siamo stati sommersi da una valanga di informazioni sull’argomento, anche via social
Nel film Nirvana (1997) di Gabriele Salvatores, Paolo Rossi nei panni di Joker elencava sostanze stupefacenti per ogni genere di intrattenimento o per alleviare diverse tipologie di disagi psichici. Nelle retrovie del quartiere arabo dell’Agglomerato Nord, poi, arrotondava spacciando illegalmente “paranoie”.
Oggi, forse, nel mondo dell’arte (e non solo) spopolerebbe un farmaco in grado di curare un disturbo ancora privo di un nome scientifico: ovvero il sentimento che si prova quando, pur non avendo ancora visto o partecipato a una mostra, un evento, una performance, ci si sente respinti per eccesso di informazioni sull’argomento o per averne fatto esperienza indiretta attraverso i social.
“Questo genere di malessere non è ascrivibile solo a chi opera attivamente nel comparto cultura, la sua diffusione virale imperversa”
Come in ogni terapia che si rispetti, è necessario partire dall’accettazione del problema per poi decidere di affrontarlo e provare a superarlo, quindi senza indugio ho dichiarato pubblicamente di esserne affetto con un post su Facebook. Con mia grande sorpresa ho ricevuto immediatamente numerosi attestati di vicinanza, svariate ammissioni da chi sostiene di soffrire dello stesso fastidio e soprattutto una lunga sequenza di possibili neologismi che descriverebbero la terribile sensazione. C’è chi parla di “esperienza minorata” rifacendosi all’accezione diffusa in Minority Report (Luca Pozzi), chi parla di “ansia da delusione” (Roberto Pugliese) o di “spoliazione” (Mara Oscar Cassiani), chi si lancia in crasi di vago sapore anglosassone come “boredead” (Marco Mancuso), “echoma” (Luca Bertini) o “hypeatia” (Gabriele Tosi) e chi ricorre a ipotetiche parole composte nella lingua madre “abituazione” (Giorgio Sancristoforo) o, infine, il più secco e tranciante “prenoia” suggerito da Valentina Tanni.
TROPPE INFORMAZIONI E FOMO
Comunque la si voglia chiamare, la risposta massiccia e accorata degli addetti ai lavori ne sancisce l’esistenza e decreta l’emergere di un problema. Come sostiene Tanni nel suo Memestetica, “lungi dall’essere una corrente artistica, il post-internet è una condizione culturale generale dalla quale è impossibile tornare indietro” e con cui è indispensabile fare i conti, anche quando si parla di inedite forme di alienazione legate alle professioni culturali. Questo genere di malessere però non è ascrivibile solo a chi opera attivamente nel comparto cultura, la sua diffusione virale imperversa e chiunque faccia uso o sia responsabile di profili digitali individuali o commerciali non è esente.
Al lettore più accorto non sarà sfuggita la parentela che questa specifica condizione intrattiene con l’ampiamente discussa FOMO, acronimo di fear of missing out, ovvero la forma di angoscia sociale che nasce dal timore di essere esclusi da una determinata situazione. In effetti tra i suggerimenti ricevuti al mio ingenuo sondaggio ce n’erano alcuni che portavano in questa direzione, da WOMO dove la “W” stava per wish, a JOMO, nella quale la “J” indica la gioia del non essere inclusi in una eccessiva e sovrabbondante valanga di informazioni, immagini e pareri non richiesti. La risposta scientificamente più efficace si trova secondo Massimo Carozzi nella cosiddetta TTSS, trend topic saturation syndrome, che già nella nomenclatura rivela il legame con il lessico specifico dei social network e non lascia via di scampo all’inserimento nel prontuario delle malattie. Chissà se una sana e consapevole Morestalgia (Riccardo Benassi) potrà salvarci…
Claudio Musso
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #69
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