Perché l’arte non deve far divertire
Negli ultimi decenni alla cultura viene chiesto di intrattenere, fornendo soluzioni semplici, immediate. Ma la sua natura è esattamente opposta. E il fallimento non è un tabù
“Febbraio 1936. Va bene che la vita è tutta un processo di disgregamento, ma i colpi di portata micidiale – i colpacci improvvisi che arrivano, o che sembrano arrivare, dall’esterno e che restano impressi, da addurre poi a discolpa, o che confesserai agli amici nei momenti di debolezza – quelli lasciano sempre qualche strascico. C’è un altro genere di colpi che arriva dall’interno, che avverti solo quando è troppo tardi per correre ai ripari, quando prendi coscienza senza appello che per certi aspetti non sarai più quello di un tempo. Il primo tipo di incrinatura sembra prodursi in fretta; il secondo si produce quasi a tua insaputa ma, d’un tratto, ne hai piena coscienza. Prima di andare avanti con questa breve cronistoria, vorrei fare un’osservazione di carattere generale: il banco di prova di un’intelligenza superiore è la capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perder la capacità di funzionare. Uno dovrebbe, per esempio, capire che non c’è scampo ma essere comunque intenzionato a far di tutto per trovare una via d’uscita” (Francis Scott Fitzgerald, Il crollo, Adelphi, Milano 2010, pp. 11-12).
L’artista fighetto è orientato a una finta positività, fatta di risultati (immediati), di profitto, di gratificazione, di percorso lineare (che non è un percorso), di consequenzialità, di individualismo. L’artista fighetto prospera nel regno di ‘ioioio’.
L’artista non-fighetto vive immerso in una sincera, autentica, irredimibile e costruttiva negatività. Opera nella deviazione e nella digressione costante, fallimento dopo fallimento, nella relazione con un altro sconosciuto, inconoscibile. L’artista non-fighetto dopo un po’ capisce (oppure no) che il fallimento è l’opera e che l’opera è il fallimento, che il percorso non porta proprio da nessuna parte e che anche quello è opera, che il fatto di essere e sentirsi sperduto non dipende dall’essere ‘cretino’ o inadeguato ma che quella è la condizione, per così dire, giusta. E sempre condizione giusta è il dover ricominciare sempre tutto da capo, opera dopo opera, ricerca dopo ricerca: anche qui, non è che non sai come si fa, è che funziona – o sfunziona – esattamente così.
L’opera vive solo nella disfunzionalità – e nell’inutilità. Nella “capacità di sostenere simultaneamente due idee contrapposte senza perder la capacità di funzionare” e nell’“infelicità circoscritta” (Fitzgerald).
L’opera muore quando è sottoposta al calcolo, all’efficienza, alla produzione.
Produrre implica ridurre i tempi ed efficientare i passaggi: esattamente quello che non va chiesto all’arte.
“L’artista non-fighetto vive immerso in una sincera, autentica, irredimibile e costruttiva negatività. Opera nella deviazione e nella digressione costante, fallimento dopo fallimento, nella relazione con un altro sconosciuto, inconoscibile”
LE PRESSIONI DEL POTERE SULLA CULTURA
Ancora dobbiamo comprendere fino in fondo i danni enormi che sono stati provocati dalle richieste assurde fatte soprattutto negli ultimi decenni alla cultura, a livello individuale e collettivo: alla cultura il potere ieri e oggi chiede infatti di intrattenere, di divertire, di dare ricette e soluzioni, di offrire una forma pronta da digerire di felicità-e-godibilità, di farsi consumare senza infastidire, di farsi digerire senza disturbare, di stare lì insomma esposta come oggetto raffinato ed esotico allo sguardo distratto di un pubblico che ha ormai a disposizione parecchi altri oggetti para-culturali o simil-culturali, e quindi ti sta pure facendo un enorme favore se va al cinema o al teatro o alla mostra… Assurdo. Se arte e cultura sono in grado di fornire dei modelli (e in qualche modo in effetti questo è vero), essi sono modelli esistenziali di fatto quasi inutilizzabili, o utilizzabili a patto di accettarne la sfida e lo scacco, modelli cioè di deviazione e inefficienza continua, di stato contemplativo anti-risultato e anti-gratificazione: di disfunzionalità costruttiva e non quantificabile.
“E allora? Ecco come la penso oggi: la condizione naturale dell’adulto senziente è una condizione di infelicità circoscritta. Ritengo inoltre che in un adulto il desiderio di essere di grana più fina di quanto non sia, ‘una tensione continua’ (come dicono coloro che si guadagnano il pane dicendolo), non farà che accrescere l’infelicità alla fine: quella fine che arriva per la nostra gioventù e le nostre speranze. In passato la mia felicità personale ha sfiorato punte d’estasi tali da non poterla condividere neppure con la persona più cara e, per smaltirla, me ne andavo a zonzo per strade e vicoli appartati, salvo distillarne poi qualche frammento in brevi frasi nei libri – e sono del parere che la mia felicità o capacità di illudermi o come vogliamo chiamarla fosse un’eccezione. Non era la cosa naturale bensì quella innaturale – innaturale come il Boom; e la mia recente esperienza corrisponde all’ondata di disperazione che al termine del Boom ha spazzato il paese” (Incollare. Aprile 1936, ivi, pp- 38-39).
Christian Caliandro
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