Il progetto musicale ispirato alle città invisibili di Calvino
Andrea Ruggeri e il suo ensemble hanno dato forma a “Musiche Invisibili”, l’album che mescola suoni e immagini, usando come bussola uno dei capolavori di Italo Calvino. Ne abbiamo discusso con lui
Batterista, compositore, arrangiatore e insegnante, Andrea Ruggeri è attivo negli ambiti del jazz, della libera improvvisazione e della world music. Ha collaborato e collabora con numerosi artisti nazionali e internazionali, suonando in diversi festival e rassegne in Italia, Austria, Francia, Germania, Belgio, Grecia, Spagna, Romania, Norvegia, Russia, Marocco, e ha registrato oltre trenta dischi. Dal 2014 è leader dell’ARE Andrea Ruggeri Ensemble, che vede coinvolti tredici musicisti tra Sardegna, Calabria, Basilicata, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto e Friuli, che si avvicendano in diversi progetti e formazioni. Il 2017 è l’anno del suo debutto in solo con la performance IDcard. L’Ensemble è composto da: Elsa Martin (voce), Mirko Onofrio (flauti, sax tenore, voce), Gabriele Mitelli (pocket trumpet, tromba preparata, flicorno), Francesco Ganassin (clarinetti, sax alto), Christian Thoma (oboe, corno inglese, clarinetto basso), Francesco Saiu (chitarra classica e chitarra elettrica), Elia Casu (chitarra elettrica, live electronics), Pasquale Mirra (vibrafono), Oscar Del Barba (pianoforte, fisarmonica), Daniele Richiedei (violino, viola), Annamaria Moro (violoncello), Giulio Corini (contrabbasso), Andrea Ruggeri (batteria, composizione). Questo dialogo si sofferma su alcuni aspetti della loro nuova opera, l’album Musiche Invisibili, una suite divisa in sette tracce, dedicato alle Città invisibili di Italo Calvino e pubblicato dall’etichetta Da Vinci Jazz nel 2022, cinquantenario della pubblicazione del libro.
Ascoltando il vostro disco si ha l’impressione che abbiate lavorato sul suono in modo da ottenere un risultato che è anche visivo, benché quel che si potrebbe vedere sia solo frutto di un lavorio della immaginazione.
Alla base del disco c’è stata una esecuzione dal vivo che abbiamo registrato sia audio sia video. L’idea iniziale era quella di pubblicare un DVD. Poi, invece, abbiamo deciso per il CD concentrandoci, quindi, solo sul suono. Soltanto in seguito ci siamo resi conto di come questa scelta abbia contribuito a ottenere la possibilità che hai ben riassunto. Ti racconto un dettaglio prezioso: il fonico Carlo Cantini ha fatto il mix davanti alle immagini e io, avendo assistito al missaggio, quando poi ho riascoltato soltanto l’audio mi sono reso conto che tenerlo così sarebbe stato un valore aggiunto: in termini di spazializzazione del suono.
Nonostante solitamente si pensi alla musica collegandola immediatamente alla immaterialità, il vostro disco si caratterizza perché mette in risalto in particolare il rapporto tra i suoni e la concretezza.
Quel valore aggiunto al quale accennavo è l’esito che abbiamo potuto ottenere suonando, ed è legato all’uso degli strumenti, a qualcosa di fisico e a come abbiamo fatto le cose, a partire dalla disposizione a semicerchio che Carlo è riuscito a “disegnare” perfettamente nel mix e nel master. La concretezza di cui parli penso sia frutto anche del lavoro corale che abbiamo svolto con gli altri musicisti dell’Ensemble, con i suoni e su eventuali suggestioni provenienti dal libro di Calvino. Abbiamo funzionato un po’ come delle antenne. In particolare, nelle diverse fasi di lavoro sulla lettura delle parti, sugli arrangiamenti e sulle improvvisazioni abbiamo continuato a “muoverci nello scorrere dei materiali”, dove astrattezza e concretezza si sono armonizzate spontaneamente.
Fare musica, mettendola in crisi facendola. Mi sembra possibile descrivere anche così la vostra opera. Voglio dire, si sente che è un lavoro sui limiti di quella che provo a chiamare la “fattualità del suono”, un lavoro sulla possibilità di non accontentarsi di quello che raggiungete per continuare a insistere sul dinamismo che lo anima.
Suoniamo ammettendo anche la possibilità di rischiare. E credo che a guidarci sia un sincero approccio empirico. Se con “fattualità del suono” ti riferisci in particolare a quello acustico, in effetti in questo lavoro esso è preminente ma, anche se poco presente, il suono elettronico partecipa alla pari a tutto quel processo di formulazione e riaggiustamento dell’esecuzione empirica e “rischiosa”, fattuale, appunto.
CALVINO SECONDO ANDREA RUGGERI
Calvino diceva che, perché vi sia un libro, è necessario ottenere uno spazio nel quale chi legge possa svolgere un percorso e poi trovare eventuali vie di uscita, magari anche dopo essersi perso. Non uno spazio qualunque ma un intreccio, uno spazio organizzato in un certo modo. Nel vostro caso, l’intreccio sembra trovare corpo nei suoni, ma soprattutto in più modi di fare musica. Suonate jazz, ma non fate solo quello; vorremmo dire che la vostra è musica da camera, ma è anche musica popolare che confluisce nella world music.
Coltivo il desiderio di non perdere mai il legame con la mia terra, la Sardegna. Proprio per questo collaboro spesso con Elena Ledda, la voce femminile più nota della world music in Sardegna, ossia quella che potremmo chiamare musica popolare contemporanea. Un ambito in cui si possono esprimere più necessità e conservare il legame con il mondo popolare. Questi approcci hanno caratterizzato sicuramente anche il disco, ma si basano sulla possibilità di fare musica continuando ad allargare lo sguardo. Inoltre, la matrice popolare è molto presente anche nella formazione dei musicisti dell’ensemble: è una sorta di caratteristica biografica di ciascuno di noi, che probabilmente si traduce anche nell’intreccio del disco.
Il lavoro che avete svolto con i suoni sembra diretto a formalizzare alcune suggestioni che provengono anche dalla scrittura. Penso, per esempio, a Zora. Calvino scrive ne Le città invisibili: “Zora ha la proprietà di restare nella memoria punto per punto […]. Il suo segreto è il modo in cui la vista scorre su figure che si succedono come in una partitura musicale nella quale non si può cambiare o spostare nessuna nota”. La vostra Zora sembra una partitura inconfutabile, ben sigillata. Ci sono sprazzi di jazz, ma in fondo tutto si attiene a una forma riconoscibile.
Rispetto agli altri, Zora è sicuramente il brano che più si riconosce dentro a una griglia. Appare rigido ma poi si rivela più morbido di quanto non sembri. È ripetitivo, per via di quella frase inizialmente proposta dal violoncello, che lo rende ritmico. Oserei parlare di una sorta di “minimalismo mosso”. Poi l’assolo di sax contralto crea un salto, un punto di contatto con il jazz. Per il resto, oltre alle già citate espressioni di musica popolare e da camera, possiamo parlare anche di contatti con le ricerche nella musica progressiva degli Anni Settanta. Evidentemente tutti riferimenti presenti nel mio ipotalamo ma che ho potuto cogliere dopo, anche grazie a confronti come questo con te, non decidendo il tutto a tavolino.
Che la musica sia invisibile sembra scontato. Eppure, di ciò che è invisibile avvertiamo comunque la presenza. Una possibilità che il vostro disco mette bene in risalto.
Accade già nella letteratura, così come in altre arti: quello di cui leggiamo, o che possiamo vedere, acquisisce una sua concretezza mentre ne facciamo esperienza. Credo che in ciascuna arte questa possibilità possa poi essere più o meno determinante. Nel caso della composizione, personalmente seguo una idea che coltivo anche in ambito didattico: riuscire a scolpire la massa sonora. Una idea che ha naturalmente influenzato anche Musiche Invisibili e che si traduce nel tentativo di dare una forma al suono anche mediante i silenzi, i cambi metrici, gli allontanamenti dalla linearità, le sottrazioni dei suoni.
L’ALBUM MUSICHE INVISIBILI
Tutto il disco è caratterizzato da passaggi da uno spazio all’altro. Zaira propone un movimento da quella che potremmo provare a chiamare una “dimensione conviviale” a una più “sospesa”, lasciando poi spazio a un tintinnio che trasforma tutto lentamente.
È così. Dapprima c’è una atmosfera serena, anzitutto riflessiva, poi nella parte transitoria proprio verso Zora, in cui vi sono i tintinnii fatti da me con le percussioni, cambia. Poiché il disco è una suite, era necessario lavorare sulle transizioni, vocali o strumentali. Perciò ci siamo concentrati su pochi e incisivi suoni per riuscire a ottenere dei contrasti.
I brani sono tutti lunghi non meno di sette minuti. Una impostazione compositiva che traduce la necessità di dare spazio al tempo proponendo quelli che in fondo sembrano essere dei “tessuti sonori”.
Condivido questa tua proposta, chiamarli così rende bene l’idea. Per riuscire nell’intreccio abbiamo lavorato molto, anche in questo caso, sul suono, sulla possibilità che con esso – creando appunto dei tessuti – ci si possa perdere ma si possa anche arricchire in qualche modo l’esperienza che se ne farà, suscitando anche eventuali emozioni… e qui ci ricolleghiamo al tuo riferimento di prima alla volontà di Calvino di rendere autonomo il lettore nell’entrare nello spazio di un libro e cercare vie di uscita, anche perdendosi, appunto. Credo che la musica in quanto musica per se stessi non abbia senso: comporre vuol dire dare seguito a un desiderio di creare qualcosa in un certo modo – che è sicuramente personale – per condividerlo con gli altri, che la fanno propria. Rispetto alle durate, siamo consapevoli di aver fatto qualcosa che non è esattamente in linea con quello che si fa in questo periodo.
Il risultato, però, è sorprendente. Penso a Tamara – che si dilata nel tempo lasciandoci immaginare spazi impensabili e situazioni forse popolari, di suono in suono – ma anche a Dorotea, nella quale aleggia un desiderio che rimane in primo piano nei suoi nove minuti: un desiderio che, lentamente, diventa bruciante. All’inizio è tragica, poi quel desiderio cresce e brucia intorno ai sette minuti fino a frantumarsi con il suono di una chitarra elettrica. Lo so, le parole provano a rincorrere questa situazione, ma si rivelano inadeguate.
Sì, ma forse non è così grave. L’arte non è fuga dalla realtà. Troppo spesso si pretende una distanza che mi sembra molto discutibile: intendo piuttosto che l’arte è realtà! Piuttosto che lavorare sulle sette città in maniera descrittiva, abbiamo cercato di fare maturare sensazioni e suggestioni ammettendo esattamente quella che per noi è quella non dualità. Forse le parole poi non si trovano, ma così la musica – per esempio con Tamara e Dorotea – è riuscita a far nascere quegli spunti.
Davide Dal Sasso
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