Mostre e musei affittati: facciamo chiarezza
Capita sempre più spesso che musei e spazi espositivi affittino le proprie sale per ospitare mostre che non sono state realizzate appositamente per quella sede. Al netto del giudizio su queste operazioni, è importante che il pubblico ne sia consapevole
Vi sembrerà una questione di nicchia, o di poco conto. O magari eccessivamente tecnicistica. Proverò a spiegare che invece la faccenda riguarda tantissime persone – beh, non certo la maggioranza della popolazione, ma probabilmente la maggioranza della popolazione che frequenta mostre d’arte e musei. E scusate se è poco.
Ma bando ai preamboli. Parlo di mostre, di spazi espositivi, e di spazi espositivi che, invece di produrre, pensare, concepire, ideare, inventare delle mostre, si limitano a far da location, si accontentano di mettere in affitto le sale. Alle volte è una scelta di disimpegno (meno impazzimento, più guadagno), alle volte invece è una scelta di necessità, perché le risorse sono poche e il prestigio dello spazio espositivo storico è l’unico valore monetizzabile: e allora concediamolo ai migliori offerenti.
Non di rado capita al visitatore di frequentare una mostra in un contenitore altisonante, famoso, storico e prestigioso. Capace da solo di assegnare valore e autorevolezza a quel che ci sta dentro. Ma quella mostra non ha alcuna relazione con quel contenitore: è stata immaginata e messa assieme altrove ed è stata portata lì come un film in una sala cinematografica, come un libro in una libreria. Il museo funge, insomma, solo da punto di distribuzione, da punto vendita.
È una dinamica – molto in crescita e ormai strutturata negli ultimi decenni – che non ha nulla di male. Non la voglio giudicare e, anche se lo facessi, non ne avrei un giudizio necessariamente negativo. Sia perché molte volte questa filiera è l’unica possibile per rendere sostenibili alcuni spazi espositivi che non avrebbero mai forza produttiva propria; sia perché assai spesso queste mostre-pacchetto hanno una qualità che nulla ha da invidiare a quelle faticosamente prodotte nei musei, anzi.
“Il rischio è che il blasone, l’autorevolezza, il prestigio che alcuni edifici si sono guadagnati nei secoli finisca a certificare con un marchio di qualità chi non lo merita”
MOSTRE, PUBBLICO E TRASPARENZA
Allora quale è il problema? Il problema è la trasparenza. Per il visitatore tutto questo è piuttosto invisibile, non percepisce in alcun modo la differenza. Mi piacerebbe che le mostre proposte al pubblico avessero una segnaletica chiara, capace di distinguere quelle organiche, native, pensate dal museo per i suoi spazi, frutto di un percorso curatoriale, di direzione, di comitato scientifico, di linea culturale, da quelle che invece arrivano da fuori, pensate altrove da figure esterne allo spazio e ospitate lì in cambio di un affitto.
Intendo dire che, se entro al Palazzo Ducale di Genova o al Palazzo Reale di Milano o alla Villa Reale di Monza, avrei piacere di comprendere se le rassegne in cartellone sono state pensate in loco, sono frutto della responsabilità di un direttore artistico “locale”, sono state concepite per l’edificio o sono lì in affitto, di passaggio. Se entro al MAXXI di Roma, vorrei poter discernere con maggiore chiarezza le mostre prodotte dal MAXXI e le mostre ospitate dal MAXXI.
Ho fatto dei nomi, ma sono esempi riguardanti spazi che comunque ospitano contenuti certificati, di qualità indubitabile. In provincia non è sempre così: piccole o medie comunità locali hanno enorme difficoltà a gestire palazzi storici, ville meravigliose, castelli e rocche. E allora le trasformano giocoforza in location in affitto dove non sempre gli affittuari sono all’altezza. Può succedere, sta nelle cose, ma va detto con maggiore chiarezza e trasparenza. Altrimenti il rischio è che il blasone, l’autorevolezza, il prestigio che alcuni edifici si sono guadagnati nei secoli finisca a certificare con un marchio di qualità chi non lo merita.
Continuiamo pure a ospitare la compagnia di giro delle mostre, se è necessario, insistiamo a tenere spazi importanti e storici privi di un direttore artistico, di un comitato scientifico e di una linea culturale definita. Ma se proprio dobbiamo farlo, almeno troviamo il modo condiviso di renderlo più evidente e più onesto ai visitatori, che viceversa finiscono per associare ingannevolmente e superficialmente contenuto a contenitore quando questa associazione non ha spessore e profondità.
Massimiliano Tonelli
Copertina pubblicata su Artribune Magazine #70
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