Dialoghi di architettura. Intervista ad Alfonso Di Masi
Parola d’ordine: decostruttivismo. È questo il termine che sintetizza l’architettura di Alfonso Di Masi, ultimo protagonista della nostra serie di interviste a progettisti che usano l’utopia come bussola
“Interessa, incuriosisce ed è di indubbio valore l’opera di Alfonso Di Masi. […] perché certamente prende il gioco sapiente delle forme e degli spazi, diversissimi tra loro, messi assieme in ottimo legame d’armonia”. Così Riccardo Dalisi tratteggia il modus operandi dell’architetto Alfonso Di Masi (Capaccio, 1953), formatosi presso l’Università degli Studi di Napoli Federico II, dove ha avuto come maestro Michele Capobianco. Di questi troviamo rielaborata la lezione nella soluzione proposta al concorso internazionale “Una Porta per Venezia” (1990-91), esposta alla Biennale di Architettura. Suoi riferimenti sono anche Zaha Hadid, Hans Hollein, Rem Koolhaas. Nella sua produzione Di Masi si delinea come un “professionista che tiene strettamente legato il nascere della sua progettazione a una sottile ricerca che gli è offerta dalla sua terra” (M.A. Arnaboldi, in l’Arca n.224, 2013) realizzando, per lo più, industrie lattiero-casearie, strutture alberghiere, aziende agri-turistiche, ma anche edifici residenziali, case private, nonché interventi di risanamento urbano in vari centri della provincia di Salerno. Gran parte delle sue opere sono state pubblicate sulle pagine de l’Architettura. Cronache e Storia, l’Arca, ma anche Casabella, Costruire, Modulo, L’architetto, Costruire in Laterizio.
I PROGETTI DELL’ARCHITETTO ALFONSO DI MASI
Analizzando alcuni manufatti significativi del passato, caratterizzati dall’“armonia delle dissonanze e delle differenze” (R. Dalisi, 2004), scorgiamo un pacato decostruttivismo in Casa Saponara ad Altavilla Silentina (SA) e in un’azienda casearia di Albanella (SA), entrambe del 1996. Decostruttivismo che si fonde all’organicismo nell’albergo termale il Tufaro (1999-2005) a Contursi Terme (SA), in cui lo sviluppo semicircolare conferito all’edifico gli consente di integrarsi il più possibile con il contesto orografico e naturalistico locale. Di stampo espressionista è, invece, un’altra azienda casearia (2001-in corso), un “cantiere infinito” sia per le considerevoli dimensioni della struttura sia per l’approccio tecnologico-costruttivo forse eccessivamente minuzioso e ricercato. Fra i progetti più recenti menzioniamo invece il concorso per un nuovo teatro a Varese (2015) e una proposta progettuale per un museo della scienza nella pineta di Paestum (2020). Il primo è stato concepito come una sorta di “abbraccio danzante” in cui, come ricorda l’architetto, “le forme fluide e decostruite del prospetto principale, si contrappongono a quelle, quasi austere, del ‘guscio’ esterno”. L’idea di progetto per un museo della scienza nasce, invece, come riporta Di Masi “dall’irritante disinteresse culturale (presso le proprie latitudini) per questa disciplina rispetto a tutto ciò che non produce economia turistica, ricorrendo a una struttura geomorfica, apparentemente acontestuale, ponendosi come monito alle pseudo-architetture realizzate nella piana del Sele”.
In esso è suggestiva la soluzione del “mantello” ondulato di copertura, forato per garantire ampia illuminazione alle sale espositive.
INTERVISTA ALL’ARCHITETTO ALFONSO DI MASI
Con l’intervista all’architetto Di Masi “chiudiamo il cerchio” su una serie di progettisti, attivi prevalentemente nel centro-sud Italia, accomunati dall’anelito per l’utopia. Ci riferiamo a Southcorner, Franco Pedacchia, Marcello Guido, Antonio Fanigliulo, da noi precedentemente incontrati, che hanno partecipato con Di Masi all’emblematica collettiva del 2007: Modernità. Crisi e prospettive dello spazio pubblico, curata da Cesare De Sessa e Fausto Martino ed esposta ad Agropoli (SA).
In quale maniera è stato significativo per lei l’incontro con Michele Capobianco? Cosa conserva della sua lezione?
Il prof. Michele Capobianco, col quale sostenni gli ultimi due esami di composizione e la tesi, rappresentò una figura del tutto determinante nella mia formazione, il primo approdo verso una visione dell’architettura che poneva, senza preamboli o mediazioni pseudo-storicistiche, il ruolo ineludibile della modernità. Una vera rivelazione: l’architettura moderna si rivolge essenzialmente al territorio e si integra a esso, secondo assi di sviluppo, con forme, funzioni e percorsi. La sua lezione, in modo incisivo, mi ha orientato verso una visione del progetto autenticamente libera e creativa, sempre attenta al dibattito contemporaneo e con un atteggiamento critico verso gli stilemi del passato.
Ha collaborato con Riccardo Dalisi a un concorso di idee a San Gregorio Magno (SA). Ci può riassumere quell’esperienza e la soluzione proposta?
La collaborazione con il prof. Riccardo Dalisi per un concorso di idee mi diede modo di apprezzare e riflettere sui suoi poliedrici disegni, che poi diventavano sculture, oggetti come le caffettiere, architetture. Sempre pervasi da una “forza poetica”, a volte prosaica, a volte intrisi di una struggente religiosità. I suoi disegni per il mercato coperto nel concorso di San Gregorio Magno, nell’aggregarsi di linee morbide e ondulate, come per una scultura fortemente policroma all’ingresso dell’area di progetto, ponevano l’accento sulla qualità degli spazi urbani e sulla infinità di “occasioni perdute” di cui questi territori sono ricchi.
Opera prevalentemente nella provincia di Salerno. Come definirebbe tale contesto progettuale e verso quali tendenze lo vede orientato?
Non per essere pessimista, ma il termine “tendenza” Salerno e provincia, almeno in architettura, credo proprio non possano permetterselo! Non credo che qui esista un “osservatorio” sull’architettura, né nei banchi della politica né nelle sedi istituzionali o tra gli addetti ai lavori. Non credo che a Salerno si possano annoverare opere di architettura contemporanea di livello internazionale, fatti salvi due, tre interventi di archistar straniere. Ogni tanto si denota qualche “sforzo isolato”, anche per strutture importanti, ma in realtà prevale il solito “going global” propagandistico, se non peggio, il ricorso agli stilemi del passato, vale a dire simmetria, fili a piombo, compostezza urbana, concetti sempre garanzia di successo per committenti, progettisti e mercato.
LA CARRIERA DI ALFONSO DI MASI
In quale compagine progettuale si sente principalmente inquadrato?
La mia formazione, fatto salvo per un certo iniziale eclettismo, ha visto una costante ricerca che, partendo da certe tendenze “radical” degli Anni Ottanta di scuola corbusiana come i five-arch (in particolare Eisenman) o James Stirling e di scuola italiana Carlo Aymonino e Vittorio Gregotti, si è sempre orientata verso un certo sperimentalismo, talvolta al di sopra delle righe, costringendomi spesso a repentini ripensamenti. L’asimmetria, gli accostamenti stridenti tra luci e ombre e la “temporalità dello spazio” mi hanno poi ben presto spianato la strada di quello che, una volta, si chiamava “decostruttivismo”.
C’è un progetto al quale è maggiormente legato e per quale motivo?
Credo l’industria casearia “Nuova Contadina” ad Albanella (SA). Questo perché, in tale edificio, penso di aver meglio messo in atto tutte quelle “invarianti” che ritengo essere alla base del decostruttivismo e, per la prima volta, utilizzato materiali di alta tecnologia, sia in termini prestazionali che estetici, fatto salvo per un vecchio retaggio: lo split-block di cemento per le facciate.
Insieme al nutrito gruppo di progettisti, alcuni summenzionati, ha partecipato alla mostra Modernità svoltasi ad Agropoli. Che ricordi ha di quell’esposizione e perché è stata così significativa?
Credo che la mostra all’ex Museo “Il Mattatoio” di Agropoli del 2007 abbia rappresentato un “manifesto” dell’architettura decostruttivista in Italia, soprattutto per la convergenza di più architetti che sembravano operare, seppur a distanza, in sincronia stilistica. Con me Antonio Cuono e Nella Tarantino (Southcorner, N.d.A.) Franco Pedacchia, Antonio Fanigliulo, Laura Rocca, Marcello Guido, Francesco Cocco e Susanna Nobili, provenienti da tutta Italia, esprimevano una architettura riconoscibile in termini di creatività e linguaggio. Credo che nel grigiore del panorama architettonico salernitano sia stato un evento più unico che raro.
ALFONSO DI MASI E L’ARCHITETTURA CONTEMPORANEA A SALERNO
Ho trovato fuori dai suoi schemi progettuali la Cubik City. Ce ne può tratteggiare l’idea progettuale?
Questo schema progettuale, alla scala urbana, è scaturito dal continuo peregrinare tra disegni, riflessioni e “utopie iconiche” sperimentate al computer, ma essenzialmente nasce da una riflessione critica sulla metropoli che sembra potersi sviluppare solo in altezza (il grattacielo), una tipologia abbastanza coercitiva, in termini di vivibilità soprattutto. Il tutto nasce da allucinate prospettive rinascimentali, in cui si assemblano volumi elementari secondo una logica tridimensionale (x-y-z) espandendoli spazialmente all’interno di una “rete” frattalmente prefigurata. Il riferimento culturale che “tout court” si è prefigurato è stato il neoplasticismo (forse la poetica figurativa dei primi del Novecento che mi ha maggiormente interessato) e quindi Piet Mondrian. Addirittura prevalse una ipotesi parossistica: “tridimensionalizzare” Mondrian! Trasferendo la condizione piana della sua opera a quella dello spazio e quindi prospettica, da qui la Cubik City.
Attualmente di quali progetti si sta occupando?
Sul piano professionale attualmente mi sto occupando dell’ennesimo lotto funzionale dell’industria casearia “La Contadina” ad Altavilla Silentina e di poche altre cose. Sul piano progettuale sto vivendo un periodo di quasi totale stagnazione, forse per il venir meno di una serie di motivazioni e stimoli che venivano dal territorio o forse perché sono cambiati gli scenari culturali di riferimento, attanagliato da un implacabile isolamento culturale, e di occasioni di confronto sull’architettura.
Carlo De Cristofaro
LE PUNTATE PRECEDENTI
Dialoghi di architettura. Intervista a Franco Pedacchia
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