Architettura emergente: l’esperienza di studio FONDAMENTA
È giunta l’ora che in Italia gli architetti riprendano il ruolo che gli spetta, superando la scissione fra accademia e professione. Ad affermarlo è l’architetta Francesca Gagliardi, cofondatrice di FONDAMENTA, lo studio con cui prosegue l’indagine sugli architetti italiani emergenti
Hanno da poco terminato il loro primo progetto di retail: il flagship store SO-LE studio all’interno di Portrait Milano, il progetto di riqualificazione dell’ex seminario arcivescovile di Michele De Lucchi. Francesca Gagliardi e Federico Rossi sono i fondatori dello studio FONDAMENTA. Entrambi classe 1987, hanno studiato all’Accademia di Architettura di Mendrisio, per poi svolgere esperienze di lavoro all’estero, negli studi di Aires Mateus a Lisbona e Antón García-Abril a Madrid, per l’architetta Gagliardi, e a Zurigo nell’ufficio di Christian Kerez per l’architetto Rossi. FONDAMENTA nasce a Milano nel 2016, al termine del primo progetto: la Cantina dei 5 Sogni, realizzata a Monforte d’Alba con Matteo Clerici. Il loro lavoro si concentra soprattutto nell’Italia settentrionale e a contatto con isole e vulcani tra la Campania, la Sicilia e le isole Canarie. Lo studio è attualmente impegnato come Academic Guest all’ETH, il Politecnico di Zurigo. Per conoscere questa giovane realtà, con le idee chiarissime, abbiamo intervistato Francesca Gagliardi.
INTERVISTA A FRANCESCA GAGLIARDI DI FONDAMENTA
Partiamo dall’essenziale: cosa significa per voi fare gli architetti?
L’architetto oggi deve sapersi calare nella contemporaneità e dunque comprendere fenomeni e processi che appartengono ad altri mondi, primo fra tutti quello economico. Fare architettura significa per noi la costruzione di spazi: esiste solo se costruita. Noi la facciamo attraverso una forte sperimentazione, mettendo in discussione le logiche ereditate oggi, cercando di darne una nostra interpretazione. Crediamo nell’architetto come una figura totale. Riteniamo che ci sia bisogno di un ritorno all’architetto vitruviano, generalista, un professionista che abbia la governance completa del progetto, compresa la gestione di tutte le figure coinvolte. Dobbiamo riprenderci il ruolo centrale che questa professione richiede.
Come nasce FONDAMENTA?
Federico e io ci siamo conosciuti all’Accademia di Architettura di Mendrisio, eravamo compagni di banco all’atelier di Mario Botta e Gabriele Cappellato; siamo diventati molto amici, ma incredibilmente non abbiamo mai progettato insieme durante l’università. Una volta laureati, ognuno ha fatto le proprie esperienze e ci siamo ritrovati a collaborare per tre mesi alla preparazione di un concorso nello studio di Christian Kerez. Il primo vero progetto che abbiamo fatto insieme è stata la Cantina dei 5 Sogni, a Monforte d’Alba (insieme a Matteo Clerici). Qui è nato FONDAMENTA, mentre chiudevamo i lavori per la cantina Federico e io abbiamo capito che eravamo pronti per aprire il nostro studio.
Perché avete deciso di aprire lo studio in Italia e non all’estero, vista la vostra formazione e propensione cosmopolite?
Molto semplicemente perché era un sogno di entrambi tornare nel nostro Paese dopo molti anni fuori; se dovevamo farlo, volevamo che fosse “a casa”. Il nostro Paese deve necessariamente essere riconquistato da architetti che intendano la disciplina come professione; abbiamo trovato un vuoto importante, frutto della scissione, oramai anacronistica ma ancora in essere, tra il mondo dell’Accademia e quello della professione. Siamo qui anche per questo: per dare al nostro Paese e ai giovani architetti un segnale forte di discontinuità con quello che è successo negli ultimi trent’anni. Dobbiamo riaffermare la posizione dell’architetto nella società, e siamo convinti che lo si possa fare solo costruendo architettura. Il nostro Paese ha un enorme bisogno di architettura costruita.
Il vostro è un nome evocativo e allo stesso tempo molto pratico. Come avete deciso di chiamare lo studio FONDAMENTA?
Il motto FONDAMENTA riesce, ancor oggi, a incarnare i principi del nostro fare. Riaffermare il ruolo dell’architetto, cambiarne le modalità, tornare a costruire architettura sapiente. Quando abbiamo iniziato, avevamo solo tante domande e l’interesse di confrontarci con temi alla base della nostra professione per poter prendere una posizione e dare una risposta concreta. Ancora oggi in noi c’è questa missione.
IL METODO DI LAVORO DELLO STUDIO DI ARCHITETTURA FONDAMENTA
Come gestite il vostro lavoro, considerando che credete nell’architetto come figura centrale del processo?
Crediamo che il processo rigoroso e soprattutto la tecnologia siano imprescindibili per il nostro lavoro e per la gestione totale. Nel nostro studio abbiamo un modello, sviluppato nel tempo, supportato dalla customizzazione di tutte le tecnologie che abbiamo a disposizione (dai programmi come Revit alle tabelle di format che ci aiutano nella gestione dei dati). Pretendiamo che tutte le figure con cui ci interfacciamo nella realizzazione del progetto utilizzino il modello madre che gli forniamo, dove inserire tutte le informazioni che riguardano il loro lavoro specifico. Tutti i dati raccolti vengono poi controllati e gestiti da noi internamente: dalla placca per gli interruttori ai tondini di ferro, esce tutto da FONDAMENTA. Ci assumiamo la totale responsabilità dei tempi e dei costi avendone noi la gestione, perché crediamo in questo controllo.
Un esempio concreto?
Il masterplan in Val di Noto. Siamo riusciti – in periodo Covid e di economia di guerra – a costruire un’architettura sperimentale, nei costi e nei tempi prestabiliti. Tutto questo si lega anche al concetto di sostenibilità, che per noi passa dall’economia del progetto: un’architettura è sostenibile soprattutto se lo è il processo per la sua realizzazione, senza dispersioni.
Per poter operare con un modello come questo, serve quindi un grande lavoro preliminare, che parte anche dal dialogo con il committente. Questo tipo di processo è stato applicato pure nell’ultimo vostro lavoro – il flagship store di SO-LE studio a Milano –, nonostante la scala architettonica diversa?
Assolutamente sì. Anzi, a maggior ragione, è stato fondamentale, visti i tempi strettissimi tra commessa e realizzazione. Essendo il primo spazio retail di cui ci siamo occupati, è stata però un’esperienza completamente nuova, come tempistiche, logica, scala. Anche il processo è stato lo stesso di sempre, a partire dal dialogo con il cliente, per noi fondamentale: abbiamo passato due mesi a discutere – nel senso più nobile della parola – per “entrare” nel suo mondo. Per Sole Ferragamo i gioielli sono architetture del corpo, che seguono principi di illusione e deformazione dei materiali; noi abbiamo cercato di tradurre questi principi nello store, passando per la deformazione della superficie tramite forme imposte e la scomposizione della materia, messa in nuovo equilibrio.
ARCHITETTURA E UNIVERSITÀ FRA ITALIA E SVIZZERA
Dite di “supportare le contraddizioni”. Perché?
Crediamo in un metodo molto preciso, ma non prendiamo nulla per dato. Noi cerchiamo quei momenti di scontro metaforici, che portano alla nascita delle nostre architetture come frutto di una concretizzazione tra fascinazione, tecnologia, studio ed eredità dal luogo e dal passato. Amiamo le collisioni che possono scaturire da tutto questo, ma senza capriccio; ogni scelta è figlia di un sistema chiuso. Non abbiamo un approccio dogmatico, ogni progetto nasce da una nuova ricerca specifica. Viviamo di nuove esperienze, ci confrontiamo ogni giorno con quello che non conosciamo rifiutando le nostre certezze. Questo approccio e metodologia porta a far convivere nello stesso “organismo”, come chiamiamo noi i nostri progetti, sistemi che possono appartenere a logiche differenti in grado di dare risposte specifiche ai temi che ricerchiamo e a cui diamo forma. La contraddizione è una prerogativa del rispondere oggi alla nostra contemporaneità, una forza.
Lavorate come architetti, in studio a Milano, e come visiting professor al Politecnico di Zurigo. Anche qui c’è un punto di collisione?
Qui la collisione è creativa; per noi lavorare all’università è linfa vitale. Nel mondo universitario abbiamo modo di indagare la ricerca e portarla sul tavolo, investigare. Al nostro corso di progettazione The economy of the project, forms of living abbiamo affidato agli studenti diciotto lotti estrapolati dal mercato immobiliare svizzero. Invece di dargli un programma, gli abbiamo fornito i soli parametri economici che il mercato oggi stabilisce in quello specifico luogo e contesto. Abbiamo fornito poi agli studenti dei tool per analizzare tutti gli aspetti che a nostro avviso concorrono alla creazione del “contesto”. Ovvero: il contesto economico; il contesto burocratico e normativo; il contesto atmosferico; il contesto materiale; il contesto storico-sociale. Gli studenti hanno poi dovuto estrapolare il programma, gli utenti e il design da questi cluster attraverso una strategia analitica a cui sono riusciti a dare una forma per creare nuove possibili forms of living. Per noi architettura è interrogare la forma del vivere.
A proposito di insegnamento e di studenti, cosa augurate al mondo dell’architettura italiana dei prossimi anni?
Sicuramente che ci sia un ritorno della figura dell’architetto generalista. Abbiamo ereditato una nomea terribile legata alla nostra professione, dove la figura dell’architetto ha perso un po’ il suo motivo di essere. Ci vuole maggiore consapevolezza, l’architetto è l’unico che può difendere il processo architettonico e mettere al tavolo tutte le figure che concorrono alla realizzazione di un progetto: è l’ora di riprenderci questo ruolo. Ci auguriamo un cambio di tendenza nelle università italiane, con una maggiore attenzione verso l’architettura costruita e una metodologia improntata alla progettazione. E speriamo vivamente che molti giovani architetti italiani provino, come noi, a fare architettura in patria: il campo è fertile e ne abbiamo un enorme bisogno!
Silvia Lugari
https://www.fondamenta.archi/#1
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