La mostra palindroma di Carlo De Meo a Roma
Parole, immagini, oggetti: la mostra di Carlo De Meo alla Fondazione Volume! di Roma si colloca al limite fra buio e luce, invitando il pubblico a scavare nel proprio inconscio
Esiste a Roma un non-luogo dove è possibile, con ingegno enigmistico, saltare da un vano all’altro in luce e in ombra e ritrovare, forse, il proprio io.
Si tratta di BU, la mostra dell’artista Carlo De Meo (Maranola, 1966) accolta da Fondazione Volume! e a cura di Silvano Manganaro che, contagiato dagli indovinelli a rebus dell’artista, parla di una mostra palindroma: “Inizia con un inchino, poi passa a un uomo chino”.
Il percorso narrativo è in effetti misterioso, si procede per unità iconologico-testuali, messe a fuoco di lettere, paronomasie, omofoni speculari che sembrano indurre il fruitore a un’ottica operativa. Tutto il tempo è concesso, poiché fra buio e brusio, nonsense e bugie vi sia il modo di calare a picco nel subconscio. Forme e parole si collocano sulle prime secondo un caos strutturato, in seguito secondo un ordine non casuale. La plurivocità di significazioni incalza e incalza pure un’auspicata deriva interpretativa. La realtà non è svelata, ma celata, al più bucata. Vi sono sagome stese, sagome nascoste.
LA MOSTRA DI CARLO DE MEO A ROMA
La struttura indiziaria dell’iter diventa un metodo efficace per muoversi nella propria realtà oscura e frantumata con un’eco rassicurante: è tutto un gioco.
A un’attenta indagine gli arredi alterati dall’artista richiamano les objets à réaction poètique di Le Corbusier, per l’immediatezza con la quale si fanno vividi e parlanti. Poi, avviene quell’incontro insperato: con la propria ombra, nel buio. Con l’ombra dell’altro, nella piena luce.
De Meo sembra veicolare, a chi si inoltri nella sua caccia al tesoro interiore, una razionalità du désir. Infatti di sidera ce ne sono, e anche una mano che vi tende.
Francesca de Paolis
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