È ora che i piccoli musei facciano sentire la loro voce

A distanza di tre anni dal primo lockdown, una riflessione sull’era post Covid in ambito museale è d’obbligo. E se alcuni grandi musei hanno fatto tesoro di quanto appreso con la pandemia, i piccoli musei rischiano di soccombere del tutto

Dalla fine del lockdown è ormai trascorso sufficiente tempo per poter comprendere cosa, di quel periodo così fuori dal nostro tempo, è davvero rimasto. Perché molta di quella spinta innovativa, sviluppata quasi come una reazione alla paura che il Covid-19 suscitava in tutti noi, è andata del tutto affievolendosi, trasformando ciò che doveva essere una condizione di new-normal in un’Italia uguale a prima, ma con molte più mascherine sui treni.
Cosa è rimasto di quell’innovazione di cui i musei si ergevano a paladini?
In un suo ottimo articolo, la professoressa Giusti (Scuola Superiore Sant’Anna a Pisa), esplora, attraverso l’operato di una delle più famose superstar tra i musei italiani (gli Uffizi), la differenza che c’è tra l’ormai abusato concetto di resilienza e il concetto di giuntura critica, traduzione del più sexy critical juncture che Francesco Ramella semplifica come un periodo in cui si allentano i vincoli derivanti dal passato e si creano opportunità per scelte precedentemente inimmaginabili.
Quanto vissuto durante il periodo del Covid, sia sotto il profilo umano che organizzativo, sicuramente rappresenta un elemento cruciale della nostra storia recente. Così come sicuramente ha rappresentato, ritornando a Ramella, un periodo in cui si sono allentati i vincoli derivanti dal passato, durante il quale sono state in parte adottate scelte non immaginabili, e in parte accelerate scelte che erano sì all’orizzonte, ma che di certo non sarebbero state fatte con tanta rapidità.

“Per molti dei nostri musei, il ripristino delle condizioni di normalità ha implicato il termine della spinta in primo luogo emotiva che aveva animato quel periodo, lasciando magari attivi i servizi sviluppati, senza tuttavia arricchirli o manutenerli

I MUSEI ALLA PROVA DELLA PANDEMIA

Tornando però al nostro sistema museale, è lecito affermare che tale periodo abbia assolto al ruolo di giuntura critica soltanto per una parte dei nostri musei. Questo punto merita forse un approfondimento: è innegabile che, durante la pandemia, o, meglio, durante il periodo di lockdown, tutti i musei hanno cercato di reagire, dimostrando, attraverso servizi, iniziative e progetti, la volontà di assumere pienamente quel ruolo attivo nei confronti della cittadinanza che dovrebbe naturalmente caratterizzare il proprio operato.
Alcuni di tali musei, e gli Uffizi, chiaramente, rientrano tra questi, hanno preservato questo atteggiamento proattivo anche al termine del periodo di emergenza, sia in termini di continuità delle azioni precedentemente avviate, sia con l’introduzione di nuovi progetti e nuovi servizi. Per tali musei, quindi, il periodo emergenziale ha rappresentato realmente una giuntura critica, adottando processi e scelte che hanno consentito poi di innovare la propria prospettiva d’azione. Tale condizione, tuttavia, non è di certo riscontrabile in tutte le strutture museali del nostro Paese: per molti dei nostri musei, il ripristino delle condizioni di normalità ha implicato il termine della spinta in primo luogo emotiva che aveva animato quel periodo, lasciando magari attivi i servizi sviluppati, senza tuttavia arricchirli o manutenerli.
Una condizione, questa, che non può nemmeno essere collegata al concetto di resilienza, perché se è vero che la resilienza è la capacità di un sistema di reagire a un evento esterno recuperando la propria condizione originaria a seguito di uno stress, è altresì vero che ritornare a una condizione originaria in uno scenario completamente diverso non è resilienza, è rigidità. Rigidità dei processi di lavoro, delle modalità di definizione dei servizi, rigidità dei regolamenti, dei contratti, delle risorse economiche disponibili, delle ideologie o delle avversioni verso una tipologia di cambiamento: le ragioni che possono aver determinato questa condizione sono molteplici e possono variare anche sulla base dei singoli casi.
In questa sede è forse anche inutile analizzare quali siano le reali motivazioni. Ed è inutile perché comprendere le motivazioni che hanno determinato tale divario diviene essenziale solo in presenza della reale volontà di riallineare il nostro sistema museale nella sua interezza, a prescindere dalla tipologia di museo, e a prescindere dalla sua proprietà, paravento utilizzato forse più volte di quanto il buongusto conceda.

Gallerie degli Uffizi, Firenze

Gallerie degli Uffizi, Firenze

“Il piccolo museo potrebbe essere percepito come rappresentativo del proprio territorio, come luogo di appartenenza, come un’ancora identitaria, un luogo di produzione e diffusione culturale

IL DIVARIO TRA PICCOLI E GRANDI MUSEI

A essere innegabile è che questo divario, che esisteva ben prima del lockdown, oggi è divenuto ancora più ampio, e lo sarà sempre più nel tempo, perché quello cui abbiamo assistito in alcune istituzioni è una modifica strutturale. Una modifica che non riguarda il numero di visitatori, e nemmeno i servizi al pubblico, ma un elemento che, per quanto intangibile, è forse uno degli aspetti più dirimenti nella gestione di qualsivoglia organizzazione, e ancor più di un’organizzazione culturale: la visione che il museo ha di sé stesso, del proprio ruolo nella società, degli obiettivi che, coerentemente con tale visione, il museo intende perseguire, e delle modalità con le quali poter raggiungere tali finalità.
È chiaro che gli Uffizi avranno sempre maggiori visitatori rispetto ad altre strutture culturali, ma di certo non si chiede a un piccolo museo di raggiungere tali volumi.
Più degli Uffizi, però, il piccolo museo potrebbe essere percepito come rappresentativo del proprio territorio, come luogo di appartenenza, come un’ancora identitaria, un luogo di produzione e diffusione culturale.
Al piccolo museo si può chiedere di conoscere per nome i propri visitatori, di sviluppare con i cittadini un rapporto quotidiano. Si può chiedere di farlo fisicamente o digitalmente, così come si può chiedere, al piccolo museo, che sviluppi progettualità che consentano anche alle piccole strutture di avviare processi di innovazione della propria offerta, di creare relazioni con le imprese del territorio affinché partecipino alle attività museali perché convinte della qualità dell’offerta e della visione di sviluppo condiviso di cui il piccolo museo si fa promotore. Si può chiedere al piccolo museo di comprendere quale, a livello internazionale, possa essere la nicchia di target che potrebbe essere interessato al patrimonio culturale custodito, e di raggiungere tale target, di interagire, di posizionarsi.
Ma questa visione in molti musei è spenta. E si percepisce appena si varca il gabbiotto della biglietteria. Per questi musei, i vincoli con il passato sono più che mai visibili. Ma per quanto forti, sono vincoli che bisogna recidere, se vogliamo davvero che, quando si parla di musei in Italia, si intendano davvero tutti i musei, e non solo di alcuni, efficaci e importantissimi, casi di successo.

Stefano Monti

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Stefano Monti

Stefano Monti

Stefano Monti, partner Monti&Taft, è attivo in Italia e all’estero nelle attività di management, advisoring, sviluppo e posizionamento strategico, creazione di business model, consulenza economica e finanziaria, analisi di impatti economici e creazione di network di investimento. Da più di…

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