Samaneh Atef – Fuori posto
Samaneh Atef (1989) è un’artista iraniana che si definisce outsider, nel senso più ampio che il termine possa accogliere: è un’autodidatta ed è un’espatriata, il suo è un sentirsi fuori posto sia nella cultura artistica ufficiale dell’Occidente che la ospita, sia rispetto al teocratico paese di provenienza, luogo dal quale fortunatamente è riuscita a fuggire.
Comunicato stampa
a cura di Tea Taramino
testo critico di Bianca Tosatti
Torino, 1 marzo 2023. Samaneh Atef (1989) è un’artista iraniana che si definisce outsider, nel senso più ampio che il termine possa accogliere: è un’autodidatta ed è un’espatriata, il suo è un sentirsi fuori posto sia nella cultura artistica ufficiale dell’Occidente che la ospita, sia rispetto al teocratico paese di provenienza, luogo dal quale fortunatamente è riuscita a fuggire.
L’intricata ramificazione grafica di Samaneh Atef disegna scenari sospesi tra il fiabesco e il macabro che portano in diverse direzioni e propongono spunti di riflessione multipli: la sua è un’arte che svela la dimensione intima e profonda delle ferite della donna, di sé, ma nello stesso tempo è un atto di denuncia. Il lavoro di Samaneh Atef abbraccia aspetti pubblici e privati, segnala l’urgenza di risolvere soprusi e pregiudizi dolorosamente ricorrenti su scala globale e che rendono insicura l’esistenza umana.
La Galleria Gliacrobati - che fa parte del circuito di cura di Fermata d’autobus ed è quotidianamente a contatto con le angosce da disagio psichico - è luogo in cui accogliere l’arte, un’arte che lascia emergere attraverso colori e forme l’estetica della sofferenza, perché, come dice Bianca Tosatti: “Con l’arte si soffre di più ma ci si sente anche più liberi” ed è di questo motto di libertà che questa mostra fa il suo vessillo.
Tutti soffriamo per quello che sta succedendo alle donne in Iran o in Afghanistan o in altri paesi in cui le dittature ancora le schiavizzano. Il nostro gruppo lavora con donne che hanno subito violenze anche in questo angolo di terra italiana e noi con loro andiamo a ritrovare quel candore che hanno nascosto nell’irrequietezza dell’angoscia mortifera che le ha offese. L’esposizione di Samaneh, ingegnera iraniana, è un chiaro esempio del tentativo di trovare un equilibrio tra l’angoscia e la ricerca della libertà.
Samaneh Atef con mano instancabile ripete segni, piccole tacche come le cucitrici ripetono i punti di un ricamo il cui disegno generale non è controllabile, come nei tappeti in cui ogni cosa dice e nello stesso tempo cela, tutto è connesso, ogni cosa entra nell’altra in un tessuto in cui le falci della luna, le costellazioni, i viticci e i fiori, gli uomini e gli animali trapassano gli uni negli altri. Un lavoro che esprime sofferenze e dolori strettamente intrecciati al suo essere femmina. Femmina come corpo che sanguina, ferita che espelle interiorità ob-scene, destino generativo imposto e tradito, chirurgie e amputazioni. Ma anche femmina come soggetto collettivo, donna composta di un anonimo pullulare di donne, She dai corpi innumerevoli, cangianti ed enigmatici, perché tutte le esperienze di grande profondità esigono intermittenze di pensiero rimuginato, di fatica e di dolore, ripetizione e ritorno.