A cena da Miuccia
La Fondazione Prada consacra Fluxus a Venezia. Con due concerti e una cena curati da Gianni Emilio Simonetti. E la “piccola utopia” diventa sempre più grande. Ne abbiamo parlato con lo “chef”, dopo aver assaggiato i piatti da lui cucinati.
La mostra The Small Utopia. Ars Multiplicata incontra la “piccola utopia” di Fluxus a Ca’ Corner della Regina, il palazzo settecentesco affacciato sul Canal Grande che è stato recentemente restaurato dalla Fondazione Prada. Molto più di una sede di rappresentanza, il palazzo (che dal 1975 è stato sede dell’ASAC, l’Archivio Storico delle Arti Contemporanee) è il luogo in cui Miuccia Prada in persona pensa e realizza mostre ed eventi, avvalendosi (ormai dal 1995) della collaborazione di Germano Celant.
In attesa che a Milano veda la luce il faraonico progetto, definito in casa Prada “un po’ più di un museo” (un centro sperimentale che unirà, oltre alle opere della collezione, mostre storiche e contemporanee, aprendosi ai vari linguaggi dell’arte), il palazzo lagunare permette alla signora della moda di partecipare attivamente, diventando sempre più protagonista, al mondo dell’arte. In questo caso celebrando, dopo i primi cinquant’anni di storia, un movimento artistico che come nessun altro ha saputo attraversare le discipline, le pratiche artistiche e la geografia per affermare la fluidità del reale e dell’arte. “La signora Prada”, fanno sapere dalla Fondazione, “ha voluto rendere omaggio all’utopia di questo movimento rendendo viva e facendo letteralmente vedere come gli artisti Fluxus facevano la loro arte“.
Quando nel 1958 John Cage mette le cuffie davanti a Mike Bongiorno negli studi di Lascia o Raddoppia? per rispondere a insidiose domande sui funghi di cui è un cultore (porterà a casa 5 milioni di lire), Fluxus deve ancora venire alla luce. Nascerà tre anni dopo per mano del lituano George Maciunas. Nell’anniversario del movimento, Miuccia Prada invita Gianni Emilio Simonetti (accreditato come uno dei pochi artisti Fluxus italiani riconosciuti da Maciunas) a ricostruire filologicamente alcune “azioni” del movimento. Si tratta di due concerti e una cena, destinati a lasciare il segno.
Il culmine di questa celebrazione è il Fluxdinner. Si apre con un omaggio a Cage: Simonetti, che tra le molteplici attività insegna anche food design al Politecnico di Milano, prepara per i cento commensali invitati un antipasto di funghi trifolati, mentre un lettore intona la Variation III di Cage, ammantando il luogo di un’austerità monacale (in convento i frati mangiano in silenzio mentre un confratello legge passi delle Scritture). Le latte di cibo in scatola poste su lunghi tavoli di legno, apparecchiati in carta e plastica, creano in principio un effetto disorientante per un pubblico abituato alle cene di gala. Non si mangia con le mani ma il vino (un ottimo prosecco) è in caraffa e dallo scatolame predisposto sulla tavole saltano fuori crauti, patate e cipolle agrodolci. Non proprio nouvelle cuisine: l’effetto è spiazzante per molti. Presto arriva in soccorso del “pane fluxus” appena sfornato.
I commensali, comunque, si abituano presto alla “povertà” offerta in tavola e l’accettano divertiti, forse come il segno di una redenzione offerta loro dai peccaminosi lussi culinari del mondo della moda e dell’arte, e capaci di “ingessare” le persone dentro una sorta di “incomunicabilità” pirandelliana. Qui, invece, le conversazioni si sciolgono presto, i gesti si rilassano, ci si alza per fumare un po’, affacciati sul Canal Grande, o per seguire Simonetti che sui fornelli “a vista” (e amplificati da microfoni) cuoce i funghi. La cena assume il tono amichevole del convivio. Signore eleganti ed eccentriche si servono aprendo lo scatolame con divertito impaccio. Le saluta il packaging Fluxus, rigorosamente coordinato, recante ovunque una maschera che fa la linguaccia, marchio inventato da Maciunas, al quale la cena è per molta parte dedicata. Cadenzata da un menù dedicato a figure storiche richiamate da Simonetti, il Fluxdinner trasforma per una sera il quarto piano di Ca’ Corner della Regina in un banchetto dal sapore un po’ militaresco e cameratesco. Ben prima che Rirkrit Tiravanija creasse mostre in cui l’artista si fa chef e l’opera relazione, Fluxus ha unito cibo e poesia per ottenere un effetto molto simile: aprire uno spazio di condivisione di valori e di consapevolezza circa la fluidità e la bellezza del reale e del quotidiano.
Dell’evento abbiamo parlato direttamente con l’ideatore, Gianni Emilio Simonetti.
Come hai affrontato la preparazione del Fluxdinner?
Sono partito da un hors d’oeuvre, omaggio a John Cage attraverso i funghi di cui era un attento conoscitore. Poi le uova sode, che sono forme perfette, lo diceva anche Dalí. I cepelinai sono invece il piatto popolare della Lituania, come la pizza in Italia. Sono polpette di patate ripiene di una piccola noce di manzo tritato. Si servono con una salsa fatta con più di un chilo di lardo tritato, che però si avverte soltanto. Nascono prima della Seconda guerra mondiale, quando la Lituania era stalinizzata. I tedeschi tentavano il trasporto aereo con gli Zeppeline, uno di questi bruciò nel cielo lituano, trasformandosi in cibo nazionale. Cepelinai, infatti, traduce la parola ‘Zeppelin’.
Seguono i fagioli.
È un omaggio ad Allison Knowles, la moglie di Dick Higgins del gruppo Fluxus. Sono serviti con quattro salse misteriose inventate da me, meno una che è una salsa dello Yucatan a base di cioccolato. Sono servite con un prosciutto caramellato tagliato dentro un nido.
Hai usato uno chef?
No, insegno food design al Politecnico di Milano e la mia vera professione dovrebbe essere quella di antropologo culturale, uno che si pone domande del tipo: come festeggiava il Natale Hieronymus Bosch? Nel 3000 a.C. cosa si mangiava nello Giura, la zona svizzera verso la Francia dove c’è la Sistina della preistoria, Lascaux?
Hai trovato le risposte?
È facilissimo, basta studiare.
Poi c’è un sorbetto alle droghe coloniali.
Lo trovavo simpatico, serve a togliere il sapore del grasso del prosciutto. Si finisce con una vodka fatta da me in onore di Maciunas che è nato a Kaunas, piccola cittadina della Lituania, dove esiste l’unico museo della vodka di tutto il Baltico.
Però ne hai fatte due versioni.
L’altra è dedicata a una donna che gli americani detestano: Emma Goldman, la rivoluzionaria, la senza Dio, la libera pensatrice, la prima a scendere in piazza per difendere Sacco e Vanzetti, quella che ha riformato la pedagogia negli Stati Uniti. Anche lei è nata a Kaunas. Questa città nel Novecento ha avuto tra i suoi cittadini anche Emmanuel Lévinas, uno dei più grandi filosofi del XX secolo. Incredibile no?
A cinquant’anni dalla sua nascita, come sta andando Fluxus?
Speriamo male. Il mito del demiurgo che nasce con Duchamp ha fatto il suo tempo e porta con sé una volontà di potenza profetica che è ignobile. Maciunas risponde in un altro modo, coerentemente con la lezione di Cage, che gli è vicino nel tempo e nello spazio, avendo fatto insieme il Black Mountain College. Sostiene che la meraviglia non è nell’arguzia barocca ma è nella vita corrente, bisogna solo saperla osservare. Diceva Maciunas: se non ascolti un rumore e sei in una stanza con del rumore, la cosa è irritante al limite dell’insopportabile, ma se ascolti il rumore con attenzione, cambia tutto.
Cosa rappresenta per te Fluxus?
È l’ultima avanguardia del Novecento, è un tentativo disperato di dire che la vita quotidiana va osservata perché così si coglie la profondità e la bellezza. In Fluxus e Maciunas c’è la volontà di scoprire la ricchezza della vita corrente, la sua grandezza che consiste nella sua inutilità, poiché chi vi trova un utile ha problemi religiosi o mistici da risolvere con se stesso. Fluxus è un avvertimento: impara a riconoscere la vita che scorre, se vuoi crescere.
Il fatto della tua presenza qui stasera, alla Fondazione Prada, è la prova di un successo. Ma non può comportare il rischio di una sistematizzazione?
No, non credo, la sistematizzazione poi non riguarda Fluxus ma tutta l’arte e nasce come problema negli Anni Ottanta, quando la globalizzazione mostra denti e unghie. Fino a fine Ottocento esistevano l’artista e il mecenate: la generosità del secondo faceva la grandezza del primo. Poi arrivò la struttura intermedia, la galleria d’arte, che era un po’ come una Cassa depositi e crediti: faceva da mediatore, aveva una funzione borsistica. La prima galleria d’arte era una copertura per un gruppetto di anarchici parigini a cui Pissarro passava uno stipendio (sono pettegolezzi da comunista, lo so). Successivamente le gallerie si organizzarono e s’intrecciarono con le forme nascenti di museo e inventarono anche una figura che spiegava il nonsense dell’arte contemporanea: il critico. Ci sono dei cretini che si definiscono critici militanti. Io li manderei sulla Sierra Leone.
Ma tu sei “in casa” di un critico militante per antonomasia, Germano Celant!
No, lui è più pacato e più furbo. La gente non vuole rendersi conto che, con l’avvento della globalizzazione e dell’economia di scala, la storia dell’arte la possono fare soltanto le istituzioni. Sono gli unici attori che possono legittimare l’arte. Tu puoi stampare tutte le banconote che vuoi, ma soltanto la legittimazione ti consente di dare valore alle banconote. Ora, mentre i musei stanno arrancando, le istituzioni (di cui le fondazioni sono la forma migliore) hanno buttato a mare la piccola galleria.
Quindi sostieni che l’unica presenza di Fluxus che abbia un senso è quella realizzata qui alla Fondazione Prada?
Esatto, e te lo dice un comunista. Se capiscono che l’arte può passare soltanto da loro, possono fare molto in futuro. Comunque chi ci ha guadagnato da questa storia è solo Fluxus. Prada ha legittimato una parte della collezione di Silverman qui esposta e ha legittimato il movimento Fluxus. Non sono soltanto i soldi: la fondazione mi ha messo in condizione di fare due concerti e questa cena, che sarà difficile ripetere in Italia migliorandola.
Quindi pensi che Fluxus come avanguardia abbia raggiunto l’apice e non possa più operare in seno alla storia dell’arte?
Le avanguardie, anche se il termine militare non mi piace, e i gruppi sperimentali non sono quelli che vedono il futuro, ma vedono il presente. Se vedessero il futuro sarebbero della forme religiose, forme destinali e poi mi darebbe molto fastidio se tu sapessi come evolveranno i miei gusti artistici.
Perciò le avanguardie sono quelle che comprendono il proprio tempo?
Esatto, ma il problema è che la gente non ammetterà mai di essere cieca sul proprio tempo, tutti sono convinti di vederlo. Guarda i nostri politici, che devono litigare con un comico perché sono accecati sul presente. L’avanguardia è quindi quella che ti mostra il presente, quella che ti fa capire dove ti trovi e che mette a nudo l’hic et nunc della situazione. Per questo motivo la grandezza di un’avanguardia consiste nel suo scioglimento, nell’auto-dissoluzione, quando il suo tempo è arrivato.
Nicola Davide Angerame
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