Cinquant’anni di fotografie di Claudio Abate in mostra a Roma
La storia dell’arte italiana dagli Anni Sessanta ai Duemila rivive negli scatti di Claudio Abate esposti al MAXXI di Roma. Un viaggio per immagini alla scoperta del fotografo che lavorava fianco a fianco con gli artisti
È fluido e immersivo l’itinerario della mostra Claudio Abate. Superficie sensibile, allestita al MAXXI. Oltre 150 immagini e le testimonianze vocali di Achille Bonito Oliva e Piero Pizzi Cannella, tra gli altri, raccontano mezzo secolo di arte contemporanea attraverso l’obiettivo di Claudio Abate (Roma, 1943-2017).
LA FOTOGRAFIA DI CLAUDIO ABATE A ROMA
La rassegna, a cura di Ilaria Bernardi e Bartolomeo Pietromarchi, mette a fuoco il percorso del fotografo che sembra affiancarsi, negli esordi, al famoso diario di Lucy Lippard, Six Years: the dematerialization of the art object from 1966 to 1972. Lo sguardo fotografico di Abate si apre all’incirca su quegli anni, tra Arte Povera, concettuale, Minimalismo, Land Art, Situazionismo.
Con occhio nitido e appassionato, Abate ricorda l’epoca del fruitore spett-attore e delle mostre luna park, dov’era possibile che una galleria si trasformasse in un garage e fosse allagata con 50mila litri d’acqua, al modo di Sargentini, che trasformò un luogo deputato all’arte in una stalla in occasione della mostra di Jannis Kounellis. Abate rivela che i Dodici cavalli vivi di Kounellis erano in realtà undici, perché durante “l’allestimento” uno era fuggito.
La processualità artistica è un’inclinazione nuova, che il fotografo registra immortalando ad esempio la performance romana time based di Robert Smithson sulla via Laurentina nel ’69.
CLAUDIO ABATE E GLI ARTISTI
Gli innumerevoli scatti in mostra allestiti su sfondi colorati in un allestimento molto denso ma ben equilibrato rievocano l’autoironica tempra da prestigiatori che gli artisti andavano ritagliandosi, facendo dell’arte dei numeri di magia, spesso relazionale.
Fu importante essere scenografi, sembra spiegare Abate quando inquadra lo Zodiaco di Gino De Dominicis (1970) o gli oggetti d’artista di Joseph Beuys nelle fotografie del 1986. Una lezione che Paolini sembra aver fatto propria e portare avanti fino agli Anni Duemila, come si evince dall’inquadratura di una delle sue opere diffuse a Palazzo delle Esposizioni.
Abate evidenzia che la natura e l’uomo furono fulcro di molte opere e performance, ma con un sorriso che non sa nulla dell’amarezza del presente, come nei ritratti di Pascali che saltella sui suoi metri quadrati di mare o che rotola sotto alla sua Vedova blu.
Solo un’acuta presenza avrebbe potuto restituire al pubblico l’uomo vitruviano in cemento a presa rapida di Boetti, la Statua indivisibile di De Dominicis. Penone con le sue lenti specchianti; un’Amalfi adorna delle siepi di Gino Marotta, la tartaruga di Pisani. Ma Abate inseguì anche le esibizioni teatrali di Carmelo Bene, le evoluzioni di Volume! e le esposizioni di Villa Medici. Certo è che la sensibilità di superficie che dà il titolo alla mostra viene da un esperimento degli Anni Settanta, da osservare in prima persona. In quel caso gli scatti di Abate si fanno specchio di una sua segreta metamorfosi: da fotografo degli artisti ad artista tra gli artisti.
Francesca de Paolis
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