Anche l’arpa può essere pop. Intervista all’arpista Kety Fusco
La nostra ricognizione sulle promesse della musica internazionale stavolta si concentra sull’arpista sperimentale Kety Fusco. Tra musica classica, contemporanea ed elettronica
Kety Fusco (Pisa, 1995) è un’arpista nata in Italia ma svizzera di adozione: dopo aver iniziato a suonare lo strumento a sei anni, viene ammessa al Conservatorio di Lugano. Diplomata in arpa classica e specializzata in Arts in Music Performance, nel corso degli anni evidenzia una forte volontà di sperimentazione con lo strumento e decide di dedicarsi all’arpa elettrica, intraprendendo un’originale ricerca sonora. Nel 2020 pubblica il suo album di debutto, DAZED, per l’etichetta Sugar Music di Caterina Caselli, con cui viene nominata in tre categorie agli Swiss Live Talents Awards. Viene invitata a suonare in contesti prestigiosi, inclusi Montreux Jazz Festival, Locarno Film Festival, Paléo Festival e l’Arena di Verona, dove suona un omaggio al compositore Ennio Morricone. Nel 2021 è invitata dalle Nazioni Unite a esibirsi nel contesto di SDG Global Festival of Action, condividendo virtualmente il palco con Patti Smith e Ben Harper. Nel 2022 viene scelta per aprire il tour della musicista danese Agnes Obel. A gennaio 2023 partecipa all’Eurosonic Festival di Groningen e l’etichetta svizzera Floating Notes Records pubblica il primo singolo tratto dall’album THE HARP, Chapter I, un progetto nato durante la residenza artistica nell’ambito di New Echo System della Fondazione per la cultura svizzera Pro Helvetia in collaborazione con Montreux Jazz Artists Foundation a Venezia. Sviluppato in tre capitoli, grazie anche all’ispirazione nata dall’incontro con il musicista italiano IOSONOUNCANE, è stato eseguito live per la prima volta in maniera integrale il 3 marzo 2023, data di pubblicazione del disco, nella Elgar Room della Royal Albert Hall di Londra in collaborazione con gli artisti visivi Gabriele Ottino e Sharon Ritossa.
Kety Fusco lavora sui materiali di cui è fatta un’arpa classica, quindi legno, metallo e budello, producendo suoni e atmosfere che ne suggeriscono la decostruzione, manipolati con pedaliere elettroniche e graffiati con oggetti. Come dichiarato dall’artista, si tratta di un’idea rivoluzionaria, una sorta di “esplorazione contemporanea” dello strumento in tutte le sue forme, sia sonore che strutturali, priva di una precisa contestualizzazione musicale, a ottenere sonorità ibride che oscillano tra musica classica, contemporanea ed elettronica.
INTERVISTA A KETY FUSCO
La tua definizione di arte.
L’arte è la mia possibilità per resistere ed esistere, è il mio modo di vedere il mondo e di viverlo, è la mia emancipazione dalle regole sociali, il mio escamotage rispetto a un sistema troppo veloce e poco attento alla sensibilità umana. L’arte è il mio concetto di vita: io vivo nell’arte, vivo nella mia definizione di arte, nel limbo di un mondo fittizio che esiste solo dentro ai miei occhi.
La tua definizione di musica.
La musica è un’energia percepibile. L’effetto che fa sul mio corpo è molto vicino all’effetto delle sostanze chimiche, mi fa entrare in un’altra dimensione: il mio corpo si sconnette dalla mia mente, riesco a vedere cose che solo una mente chimicamente danneggiata riuscirebbe a vedere, può farmi sentire così in alto e così in basso, mi fa arrabbiare e amare. È letteralmente la droga più potente che io abbia mai assunto.
Ti definisci una “artista”?
Non mi definisco in alcuna maniera e non mi piacciono le definizioni. Sono una persona che, a modo suo, sta nel mondo; creo qualcosa, con un’arpa, che può aiutare non solo me, ma anche altre persone. Io mi sento come un’operaia della musica: invento, costruisco, creo, metto insieme i pezzi, manipolo suoni, alzo arpe di 80 chili, rispondo a tantissime mail, creo le grafiche dei miei progetti, studio i video, penso ai concetti visivi dell’album, lavoro alla mia label, spedisco i vinili, parlo con i manager. Voglio che la mia arte cambi qualcosa nel mondo e voglio che le persone abbiano una reazione.
ARTE E MUSICA SECONDO KETY FUSCO
L’opera di arte visiva che più ami.
Sicuramente sono molto legata alle performance di Marina Abramović e non ce n’è una in particolare, le amo tutte!
La canzone che più ami.
Il brano musicale che più amo al mondo è la Chaconne di Bach, mi fa piangere ogni volta. C’è un’interpretazione meravigliosa su YouTube di Greta Medini, suonata interamente con la viola.
I tuoi recenti progetti.
Sto lavorando a una ricerca sonora sul mio strumento: l’arpa. Voglio cambiare la visione di questo strumento e renderlo non solo moderno musicalmente ma anche strutturalmente, e vorrei che tutti potessero avvicinarsi a esso. Per prima cosa, ho composto un album, DAZED, in cui l’arpa cantava come una voce ed era sostenuta da un’elettronica aggressiva, questo perché l’arpa è da sempre stata abbinata a qualcosa, per esempio arpa e voce, arpa e violino, arpa e flauto, ecc., dove era sempre l’accompagnamento. Invece in DAZED l’arpa è l’assoluta protagonista di ogni brano.
Ho poi voluto registrare circa 400 suoni noise dell’arpa; questi suoni fanno adesso parte di un database digitale, scaricabile sul mio sito web. Con questi suoni sto creando anche una trilogia dal nome THE HARP: la prima parte è uscita il 3 marzo ed è il racconto di un’arpa scomposta nella sua struttura e suonata tramite i suoi elementi quali legno, metallo e budello. Vorrei che le persone si dimenticassero che l’arpa è lo strumento del VII secolo che ormai sono abituati a vedere e sentire, perché la sua forma sonora per me deve evolvere.
Un ricordo della tua vita.
Qualche mese fa sono stata in Messico a suonare, era la mia prima volta oltreoceano: premetto che sono già “schedata” in aereo perché sono un passeggero problematico, disturbo per tutto il volo le hostess e gli steward perché i rumori mi danno fastidio, ho paura che l’aereo si schianti e odio la gente che si alza per andare in bagno e che ci resta per più di tre minuti. E così, sia durante il volo di andata sia in quello di ritorno, ho creato un po’ di caos a bordo: volevo scendere nel bel mezzo dell’oceano. Non mi importava se non era possibile, avrei desiderato che trovassero un modo. Alla fine, ho dovuto ricorrere a un metodo drastico ma necessario e sono letteralmente svenuta per otto ore. Per concludere questa avventura, i membri dell’equipaggio mi hanno dato un diplomino per essere stata coraggiosa.
Samantha Stella
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati