La Pop Art di Roy Lichtenstein a Parma
C’è ironia e intelligenza nell’approccio all’arte di Roy Lichtenstein, protagonista della mostra che Palazzo Tarasconi dedica a un genio della Pop Art: esposte 50 opere
Tutto inizia da un punto. Segue una linea, un campo di colore, e poi le consistenze, le prospettive. Attraversare l’universo componibile di Roy Lichtenstein (New York, 1923-1997) è un po’ come ripercorrere la storia dell’arte, della scrittura e del gioco, imparando daccapo come si guarda. Una apparente ingenuità dalle sfumature densamente concettuali pervade la mostra parmense dedicata al genio della Pop Art nella sala ipogea di Palazzo Tarasconi – restaurato da Corrado Galloni e ora riaperto per una serie di dediche all’arte americana.
Qui, con cinquanta opere, si delinea un percorso ambizioso, che abbraccia le molte spinte sottese al lavoro del celebre artista. Oltre gli Speech Painting, infatti, c’è un mondo di sperimentazioni che fa dei celebri punti Ben-Day e dei colori piatti gli elementi fondativi di un percorso artistico talmente metodico da diventare scientifico.
“Quella di Lichtenstein è un’arte della visione che mette al centro il rapporto sensoriale radicato nella percezione visiva, ossia il processo per cui noi riceviamo, organizziamo e diamo significato alle sensazioni che ci vengono dagli stimoli visivi. Lichtenstein mutua questa prospettiva dalla branca psicologica della Gestalt creando un’arte della forma, che qui diventa come prima cosa ‘arte dell’occhio’”, racconta Gianni Mercurio, curatore della mostra aperta fino al 18 giugno. “Dietro l’apparente semplicità dell’arte di Lichtenstein si nasconde una complessità enorme, tecnica e concettuale”.
GIOCARE CON L’ARTE SECONDO LICHTENSTEIN
Attraverso pochi elementi riconoscibili – che va a raffinare con un labor limae maniacale –, Lichtenstein attua una scomposizione dell’arte facendo allo stesso tempo una sua “messa a terra”, una sua irriverente decostruzione. Compie una lucida analisi della propria formazione e del proprio ruolo, contestando un sistema che sceglie di elevare certi temi o premiare certi artisti preservandone il mito e creando riferimenti noti solo agli adepti. Lichtenstein, con le sue Ninfee, i suoi Covoni di grano e i suoi nudi privi di erotismo, ha il ruolo opposto di un gate-keeper, diventando gate-opener. Forse anche per questo non viene sempre capito: nel ’64 Life chiede ai lettori se sia il peggior artista d’America. Ma Lichtenstein non se ne ha troppo a male, e continua con spirito lieve questo processo di smottamento di proporzioni epiche, che nella sua opera diventa gioco ed esperimento scientifico insieme, tra tecniche e materiali che spaziano dal gesso al tessile dall’acrilico fino alle plastiche Rowlux, lasciandosi influenzare dalla musica jazz e classica, ma anche dall’archeologia e dalle tecniche prospettiche rinascimentali. L’unica regola: non rompere il gioco. In questo, Lichtenstein manifesta un rigore inaspettato, totale. Per smontare i classici, dopotutto, devi conoscerli, e per comprendere un medium o un tema devi analizzarlo in serie, senza distrazioni. E così fa.
LICHTENSTEIN FRA IRONIA E PATRIOTTISMO
Dalla smitizzazione della pennellata in Brush Stroke fino alla reinterpretazione dell‘Urlo di Munch con un bambino berciante, lo spirito ironico di Lichtenstein è una cifra nota della sua produzione. “Uno dei suoi principali intenti era quello di demistificare la figura dell’artista: i maestri del passato sono ‘usati’ alla stregua di oggetti pop, senza timore reverenziale”, spiega il curatore Gianni Mercurio. Allora come spiegare il tono epico, da ciclo cavalleresco medievale, della grande opera patriottica I love liberty? “Roy era una persona tranquilla, radicata in una vita a tutti gli effetti normale e lontana dalla ribellione mostrata dai contemporanei come Warhol, Basquiat, Haring. E a differenza loro, credeva davvero nella grandezza degli Stati Uniti. Si parla sempre della sua ironia, ma quando riproduce la Statua della Libertà è serissimo. Era stato soldato nella Seconda Guerra Mondiale e aveva un forte senso della patria. È come se ponesse chiaramente un limite: ironia sì, ma su certe cose non si scherza”.
Giulia Giaume
Articolo pubblicato su Grandi Mostre #33
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