Cosa c’entra il gaslighting con il welfare culturale?
In un’epoca di mistificazioni e contraddizioni, il mondo della cultura deve essere vettore e strumento di verità, puntando su logiche sostenibili e inclusive
Chissà se in piena crisi energetica i detentori della lingua nelle sue forme ed espressioni ne saranno stati condizionati, tanto da decretare tra le parole dell’anno (si veda Forbes Health, dicembre 2022) il termine “gaslighting”. Il surrealismo alla Twilight, con le sue saghe costellate di vampiri e lupi, sono roba superata, tanto da vedersi mettere in ombra, a quasi settant’anni di distanza, da un classico del teatro divenuto famoso al cinema con una magistrale interpretazione di Ingrid Bergman (le valse l’Oscar ancora giovanissima). Sto parlando di Gaslight (1944, versione italiana: Angoscia). Il protagonista maschile persuade la moglie in merito a fatti che stanno accadendo, convincendola che non sono reali, incluso l’abbassamento delle luci a gas della casa (da cui il titolo Gaslight), con la conseguenza di indurla a credere di stare impazzendo.
Circondati da troll, fake news e realtà “altre” (non solo aumentate), immersi come siamo in dimensioni sovrapposte e intrecciate a tal punto da confondere realtà, immaginazione, verità, essere vittime del gaslighting o quanto meno inclini a subire una distorsione del reale e dal reale, sono condizioni in cui ciascuno si trova o può trovarsi.
E così, a distanza questa volta di secoli, quando il dubbio era considerato salutare (nella tradizione filosofica da Platone, Agostino a Cartesio, attraversando quello amletico e nutrendosi dello scetticismo di numerose discipline, in primis scientifiche), oggi ci troviamo ostaggi della più subdola delle forme di manipolazione.
“I mistificatori di realtà sono una categoria popolata quanto i commentatori sportivi durante i Mondiali di calcio”
CULTURA VS GASLIGHTING
Le istituzioni e le imprese culturali, nelle loro multiformi vocazioni e con una pluralità di linguaggi espressivi, devono riportare al centro della discussione il ruolo che più nel tempo presente loro appartiene. Essere: vettori di verità (probabilmente non assolute, ma affidabili), protagoniste di un pensiero critico (per l’insita natura di provocazione e dilemma dei linguaggi culturali), agenti per un cambiamento consapevole (mai privo di consenso attivo), influencer (grazie a narrazioni di contenuti e di storia), prosumer abilitanti nuove visioni (il soggetto che si relaziona non è solo consumatore culturale, quanto anche produttore che interagisce sul contenuto).
Credere convintamente nel soft power del welfare culturale significa assumere l’arte e la cultura, nelle loro multiformi espressioni, quali risorse di salute e risorse per la cura di singoli e comunità, come recita il manifesto di CCW, di cui sono founder (culturalwelfare.center). È dimostrato, come attestano i Rapporti OMS, il rapporto virtuoso sotteso e questa relazione gestita in chiave strategica diventa lo strumento per rileggere le politiche e le azioni nei territori: “La cultura è strettamente connessa allo sviluppo individuale e collettivo; è in gioco la coesione sociale e la salute biopsicosociale delle comunità”.
IMPRESE CULTURALI, SOSTENIBILITÀ E INCLUSIONE
Le istituzioni culturali e creative devono comprendere che alle navigate (a volte anche abusate) istanze di salvaguardia, promozione e valorizzazione, in un mutato e mutante presente, devono essere aggiunte e considerate domande inedite quali quelle di welfare e di sostenibilità. Le organizzazioni culturali possono spendere una stabilità unica in mezzo a fenomeni pericolosi di perdita della capacità di filtro e discernimento: tutto è verità; di confusione, tra tecnicalità e comprensione di concetti astratti: per cui ogni valutazione è spostata sulle prime piuttosto che sulla seconda; di lavoro non più incasellabile: remote/smart/flex/flow. Nel solco di questa profonda mutazione, i mistificatori di realtà sono una categoria popolata quanto i commentatori sportivi durante i Mondiali, quando si dice tutto e il contrario di tutto. Un augurio da formulare alle imprese culturali è proprio quello di distinguersi dal coro, ma non certo per una forma anacronistica di presa di distanza, quanto come soggetto capace di esprimere una nuova leadership. Una leadership che sarà ancora fondata sulle radici e sulla storia senza però che ne siano le esclusive basi, integrandola con pratiche di inclusione e azioni di sostenibilità. Nutrire visioni di futuro che accolgano, non solo negli intenti ma anche negli strumenti di governance e gestione, questa prospettiva significa dare un’occasione alla cultura per rispondere alle esigenze primarie di tutela, promozione e valorizzazione. Significa anche riuscire a garantire la dimensione più contemporanea che è data dalla produzione culturale (non mi preoccupo solo di conservare il passato, qualunque sia) e a costruire la dimensione di prospettiva che è generata da un processo di advocacy per la cultura (ciascuna organizzazione avrà il suo da impostare, mentre tutte potranno beneficiare del processo di advocacy delle altre).
Irene Sanesi
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70
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