Alessandro Manfrin, il giovane artista flâneur che si lascia ispirare dalla città
Classe 1997, Alessandro Manfrin è un astro nascente del panorama contemporaneo. Ma quali sono i suoi obiettivi? E quali gli intenti nel leggere il paesaggio urbano in maniera disincantata? Glielo abbiamo chiesto durante questo studio visit
Per Alessandro Manfrin (Savigliano, 1997) le città contemporanee sono corpi esausti, consumati, fragili. Attraversando lo spazio urbano, l’artista ne raccoglie schegge e umori: cartelloni pubblicitari, immagini legate a cantieri, piante che si impossessano di edifici in disuso, suoni della metropolitana. Un’atmosfera fantasmatica pervade le opere di Manfrin. Difficile incontrare figure umane nei suoi lavori; e, quando questo accade, si tratta di immagini provenienti dalla fine degli Anni Sessanta, quasi degli spettri. A pensarci bene, Manfrin sembra mettere in scena il ricordo sbiadito di una città, in cui temporalità differenti rendono complicato capire a che punto cominci il passato e termini il presente. Lo sguardo dell’artista è rivolto all’asfalto che calpesta così come alle cime dei palazzi che svettano nei luoghi dove vive, costantemente alla ricerca di tracce da cui partire per la realizzazione di interventi che somigliano a monumenti precari e incerti. Manfrin vuole cogliere il potenziale poetico e lo struggimento che possono derivare dall’osservazione del contesto urbano, rinunciando tuttavia a ogni intento consolatorio e, al contrario, sottolineando i limiti dei luoghi che abitiamo.
INTERVISTA AD ALESSANDRO MANFRIN
Nel 1863 Charles Baudelaire individuava in Constantin Guys il pittore della vita moderna, capace di esaltare la velocità e il fermento che attraversavano una città come Parigi in quel periodo. A distanza di 160 anni anche tu ti soffermi sulla realtà urbana contemporanea, offrendone una lettura di segno apparentemente opposto.
Mi piace pensare di condividere con Constantin Guys una certa attitudine da flâneur e un’attrazione nei confronti degli “effetti collaterali” che le città contemporanee producono. Penso che la città e i suoi ritmi siano, nel mio lavoro, un pretesto per parlare di abitare, e quindi per parlare dell’uomo. Il contesto urbano è una piattaforma dove il privato e il pubblico si mescolano e si confondono. Sull’asfalto e sui marciapiedi si trovano costellazioni di oggetti abbandonati, consegnati a tutti e appartenenti a nessuno. La città contemporanea è l’habitat ideale per il proliferare di rumori bianchi e scarti, come fossili senza storia né tempo. Lavorando al progetto Blueback, esposto a Platea Palazzo Galeano, a Lodi, l’idea era quella di partire dall’ultimo anello di questo sistema nevrotico e iperproduttivo, ovvero le pubblicità applicate sui billboard e, con il retro di questi materiali, produrre un’immagine astratta, un “cielo in una stanza” fatto di immondizia destinata al macero.
Nelle tue opere le immagini digitali (per esempio estratti di video trovati online) e alcune tracce del paesaggio contemporaneo (penso ai pacchi delle grandi compagnie di spedizioni online) coesistono con elementi che rimandano a un passato più o meno recente (immagini di cortei degli Anni Sessanta e Settanta, architetture nate nella seconda metà del Novecento…). Anche formalmente, trovo che ci sia una relazione con certe pratiche artistiche affermatesi negli scorsi decenni.
Quando penso a un lavoro è difficile prescindere dalla storia dell’arte o, perlomeno, dalla tradizione in cui il lavoro si inserisce. Come spiega George Kubler nel saggio La forma del tempo. La storia dell’arte e la storia delle cose, l’arte è prima di tutto materia che si stratifica al tempo geologico della terra, e questo per me vale anche quando lavoro con immagini prelevate online o con immaginari legati alla memoria collettiva come quelli degli Anni Sessanta e Settanta. Se dovessi tracciare una linea di esperienze della storia dell’arte che accompagnano i miei pensieri quando lavoro, sicuramente inserirei tutta la tradizione del Romanticismo, a partire dalle rovine incise da Piranesi, passando per i ruderi e i paesaggi dipinti da Friedrich per arrivare alla scultura-tempo di Robert Smithson e ai paesaggi urbani di Cyprien Gaillard.
Che rapporto hai con la storia, a partire da quella dell’arte? In che modo cerchi di aggiungere qualcosa di tuo o comunque legato al tempo che stai vivendo?
Non c’è uno sguardo nostalgico nei confronti del passato, la serie di lavori sulle architetture di Milano (Milano palazzi) mette insieme architetture iconiche della seconda metà del Novecento con il cantiere della nuova sede della palestra Virgin. In questo caso mi interessa lavorare sull’idea di facciata, e la città contemporanea mescola architetture brutaliste con palazzi di vetro fragili e precari o, ancora, superfici ricoperte da piastrelle conquistate da edere e muffe.
LO STILE E LE OPERE DI ALESSANDRO MANFRIN
Utilizzi spesso pacchi postali o contrassegnati dai loghi delle aziende di commercio online: è un semplice riferimento a un oggetto ricorrente della nostra quotidianità o c’è una qualche intenzione critica nei confronti della società contemporanea?
I pacchi da spedizione mi interessano perché registrano le tracce dello spostamento. Viaggiano e si muovono, la loro funzione è quella di proteggere oggetti e desideri. Il lavoro untitled (from a to b) è un autoritratto: sono registrazioni del mio respiro che vengono riprodotte da uno speaker che dura per giorni e che viene spedito dal luogo in cui vivo allo spazio in cui viene esposto il lavoro. L’idea è quella di far passare un oggetto tanto etereo ed effimero come il respiro attraverso mani sconosciute; mi piace pensare che tra i pacchi che vengono smistati ce ne sia uno che custodisce la registrazione del mio respiro. Nel caso della serie untitled (domestic plants as a scultpures) i pacchi assumono la funzione di basamento. Quando ho realizzato quei lavori pensavo alle sculture di Brancusi e ai plinti che diventano scultura. È come se la pelle di questi lavori tenesse conto delle botte dovute agli spostamenti, ma anche che sia testimonianza di tutti quei loghi che regolano le leggi di mercato in cui viviamo e in cui il mio lavoro cerca di inserirsi, producendo piccoli cortocircuiti.
Ti sei appena affacciato al mondo dell’arte. Quali opportunità e, insieme, difficoltà ti sembrano prospettarsi? Hai uno studio? Come riesci a pagare l’affitto?
Ho avuto uno studio per circa un anno che ho lasciato da poco, ne sto cercando un altro, sono in quella fase in cui desidero tantissimo uno spazio in cui poter lavorare ma devo fare i conti con le muffe degli scantinati e i prezzi folli di una città come Milano. A settembre del 2021 ho iniziato a collaborare con la Gian Marco Casini Gallery di Livorno, sono molto contento dello scambio che stiamo avendo. In questi anni ho lavorato anche come assistente per altri artisti, ma sto cercando di dedicarmi esclusivamente al mio lavoro. Mi piacerebbe fare una residenza all’estero, soprattutto per vedere cosa succede al mio lavoro se cambio la città in cui vivo. In Italia sembra difficile pensare a lavori più complessi da sostenere, ho in progetto di realizzare altri ambienti come Blueback, non credo sia impossibile farlo qui, ma sento che potrebbe farmi bene respirare l’aria che sta fuori. Penso che l’arte sia prima di tutto un pretesto per interessarsi a qualsiasi cosa: è un linguaggio che si ridefinisce costantemente e anche il sistema che lo alimenta, con tutte le sue criticità, ha la capacità di autosabotarsi e rigenerarsi di continuo.
Saverio Verini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #70
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