Andrea Chiesi – Natura naturans
Tutto, naturale e antropico, è trattato da Chiesi come forma di nudità del visibile, privato dell’autorevolezza monumentale che sta nei nostri occhi ma non nelle cose.
Comunicato stampa
Occorre ripartire da un testo prezioso di Franco Fanelli, Memoria, non rovina, 2009, per stabilire univocamente i fattori fondanti del lavoro di Andrea Chiesi: delucidarne, anzitutto, la nessuna propensione per il rovinismo e le sue ambigue estetiche (e si pensa a Pasolini: “Un solo rudere, sogno di un arco, / di una volta romana o romanica, / in un prato dove schiumeggia un sole / il cui calore è calmo come un mare: / lì ridotto, il rudere è senza amore), e lavorare su un’esattezza in cui “la realtà apparentemente conseguita si tramuta in visionarietà”.
Mentre trascolora l’arroganza assertiva e retorica del soggetto dell’architettura industriale, sempre più nell’operare odierno di Chiesi tendono a prevalere la condizione e lo spessore esistenziale dei suoi sguardi. Dico, in primo luogo, il viraggio monocromo che intride la visione e la specifica in un diverso mood, quasi a stringere l’essenza di qualcosa che era colore ma ora è soprattutto lavorio di luci, e di ombre, esatti nella loro inanità ma senza appiglio che non sia convenzionale con il rappresentato.
Attraverso il bagno d’un colore disagiato, anestetico, i segni antropici che gli erano consueti (mi piace pensare figliati in origine da Charles Sheeler pittore e fotografo – anche dallo Sheeler, che nel 1921 realizza con Paul Strand il film sperimentale Manhatta – e giunti a un asciutto, ripensatissimo, acuminato atteggiamento post-painterly) si parificano e si contaminano con quelli d’un naturale a sua volta ritrovato alla fine della cultura pittorica e delle sue colossali memorie: fatto oggetto, dunque, di una deestetizzazione radicale rispetto ai suoi stessi paradigmi.
Tutto, naturale e antropico, è trattato da Chiesi come forma di nudità del visibile, privato dell’autorevolezza monumentale che sta nei nostri occhi ma non nelle cose. Come nudità, e residualità, alla quale resta però una misura inestinguibile, il tempo. Ha scritto lo stesso Chiesi, 2005: “Tutto il mio lavoro è legato al tempo [...] Tutti gli spazi che ho dipinto sono spazi che ho visitato realmente e in misura diversa fanno parte della mia memoria. Da quando ho iniziato a disegnare e scattare foto, cioè da oltre venticinque anni, ho una specie di agenda in cui annoto quello che faccio. Ogni pagina serve a dare un senso a ogni giorno trascorso, a costruire nel trascorrere dei giorni la storia di una vita (che in questo caso è la mia, ma potrebbe essere qualsiasi altra). In questa lettura il mio lavoro è una sola opera autobiografica costituita da innumerevoli parti, i diari, le incursioni, le foto, i disegni e i dipinti. La pittura è la manifestazione finale del mio tempo”. Letta in questa prospettiva, la serie nuova dei lavori di Chiesi registra e si fa portatrice di uno straniamento profondo: in cui avverti come accessori i tratti connotanti l’immagine, e invece cruciale il tasso di esperienza – che è critica e rivelazione, interrogazione e divagazione, anche – in cui l’artista pienamente si conosce e si concepisce vivere: en peintre, naturalmente, perché nella pittura si concentra il massimo di rigoroso arbitrio nell’esplorare le forme e nel farne gli specchi in cui egli si conosce appieno. Che, ora, il suo essere post-painterly assuma un che di definitivo, dice dell’estremismo, della sorveglianza implacabile del suo fare, che giunge al diapason in cui l’apparente facilità dello sguardo si fa una sorta di labirinto senza fine: e pensi a quando la pittura inventò la natura che dice se stessa a cominciare da Joachim Patinir, colui che Dürer definì “der gute Landschaftsmaler”, coniando appositamente per lui il termine nuovo “paesaggista”.