Do / Don’t paint
La mostra è un itinerario possibile attraverso i sentieri del colore, della pittura e dei suoi confini, dei suoipresupposti e delle sue complessità, anche paradossali, in una messa a confronto dialettica tra nomi didifferenti generazioni.
Comunicato stampa
La mostra è un itinerario possibile attraverso i sentieri del colore, della pittura e dei suoi confini, dei suoipresupposti e delle sue complessità, anche paradossali, in una messa a confronto dialettica tra nomi didifferenti generazioni che l’hanno studiata, accolta e interpretata mediante approcci eterogenei, seguendo lineedi indagine assolutamente autonome che transitano da una sofisticata metodologia concettuale a unagestualità magmatica e vitale, da un ripensamento delle tecniche tradizionali - all’insegna di un discorso legatoalla sostenibilità – a una espansione della bidimensionalità nei territori della scultura e dell’installazione.
Do / Don’t sarà pertanto un viaggio corale – con presenze internazionali di primaria importanza, dall’artista Liliane Tomasko al maestro Giulio Paolini –, in cui lo spettatore potrà immergersi in differenti istanze, accentuate anche dalle attitudini dei singoli artisti, dal loro appartenere a generazioni e geografie differenti, maanche dai linguaggi adottati.
Organic pictures di Francesco Fossati sono tele realizzate con tecniche a stampa ecologiche, trasferendo ipigmenti di determinati materiali botanici – per esempio radici, verdura, foglie, frutta – su tessuti di fibre vegetalicome il cotone e il lino. Sono opere a chilometri zero, le materie prime vengono rintracciate nel suo orto e nelleimmediate vicinanze del suo studio e anche il trasporto per mostre o installazioni nelle case dei collezionistiavveniva attraverso soluzioni non impattanti. È l’ecologia dell’autosufficienza, che ribadisce non soltantol’autonomia della ricerca artistica rispetto ai ritmi esterni del consumismo e della contaminazione, ma unrapporto profondo con le piante, con la loro vita.
Sono reperti ideali di un’archeologia personale di suggestioni, immagini, segni, tracce di una memoria intima eimperscrutabile le opere di Daniela G. Paz, vere e proprie stratificazioni in cui rintracciare spazi di culture altre, spaziando tra le geografie visuali e culturali. L’artista propone così dei percorsi di materie, in cui include fibresintetiche, pastelli, materiali organici, talvolta resine e altri materiali come glitter che si stratificano su superficiconcepite attraverso stampe realizzate con monotipi o altre tecniche. L’opera alle volte esce dalla suabidimensionalità per svilupparsi nello spazio in una declinazione installativa, confrontandosi con lo spazioarchitettonico e avviando un rapporto diretto e intimo con il pubblico. D’altronde appaiono come diari intimi, dove annotare pensieri impossibili da decifrare.
Il maestro Giulio Paolini – il cui ruolo è fondamentale per comprendere le vicende dell’arte italiana einternazionale dai primi Sessanta – ha basato tutto il suo discorso dell’ultimo mezzo secolo e oltre su unariflessione sistematica sulla figura dell’artista e sul valore concettuale dell’opera. D’altronde sul concettodilatato di museo Paolini riflette da molto tempo, riuscendo però sempre ad essere coerente e a stupire. Non èforse questa la grazia che l’arte riserva ai grandi maestri? I suoi collage, legati alla produzione recente, ribadiscono il principio concettuale della citazione alla base del suo percorso, ma anche quella sua specialeattitudine di considerare la storia della pittura e dell’arte in generale come un grande archivio a cui attingereper nuovi spazi d’indagine.
È irruenta, magmatica, multiforme e densa la pittura di Liliane Tomasko, sprigiona un’energia vorticosa nelsuo processo che riflette sulle potenzialità del mezzo pittorico legandosi alle storiche esperienzedell’espressionismo astratto e ponendosi come spazio di meditazione sui territori onirici e le riflessioni sugliaspetti emotivi dell’esistenza. È un corpo a corpo con la pittura, quello pratica dall’artista, in un dialogo densocon le superfici che cambiano pelle al contatto con un vero e proprio magma di segni e cromie che siintrecciano in un unico getto vitale concependo delle superfici che attraggono per la loro sofisticata laboriosità, rivelando uno dei principi dell’artista, ovvero un lavoro meditato attorno alla pittura e ai suoi confini. È nella dimensione del colore che si esplicita uno dei punti cardinali del lavoro di Denise Werth, nella sua capacità di articolare con un approccio monocromo oggetti in tridimensione che sembrano fuoriuscire da un laborioso futuro. Le sue sculture appaiono infatti come reperti, in cui le forme rassomigliano a oggetti d’uso comune o comunque legate a un immaginario collettivo. Espandendosi nello spazio, rivelano la forza catalizzatrice della forma, imponendosi come forme totemiche, in un dialogo tra linguaggi, generi e in una compenetrazione totale di cronologie, perché le sue sculture oggettuali sembrano provenire da un tempo inaccessibile.