In ricordo di Matteo Berra. Morto l’artista che scrutava le pieghe dell’universo
Muore prematuramente l’artista lombardo innamorato della scultura e delle galassie. Fra esperienze in USA, in Europa e in Corea, e diverse opere pubbliche realizzate in Italia, aveva sviluppato una cifra personale forte e riconoscibile. Nell’attesa di un adeguato riconoscimento e della giusta attenzione da parte dell’art system italiano.
La sua opera più nota è una delle poche, imponenti sculture d’arte pubblica realizzate a Milano per un’architettura contemporanea. La più alta in assoluto. Si intitola “Fold” e Matteo Berra (6 ottobre 1977 – 26 aprile 2023) la presentava nella primavera del 2019, dopo tre anni di lavoro spesi all’interno di un capannone industriale, a Zingonia, appositamente preso in affitto e tramutato in officina. L’enorme “piega” verticale si estende per 23,5 metri lungo una delle estremità dell’Art Building, edificio di otto piani in zona Melchiorre Gioia, con vocazione residenziale e con una speciale attenzione al dialogo tra arte e spazi architettonici. Il palazzo – frutto del lavoro di riqualificazione intrapreso dallo Studio Zambelli di Bergamo e dall’impresa Giovanni Paris di Brembate su un preesistente stabilimento industriale – veniva inaugurato nell’aprile dello stesso anno, impreziosito all’esterno dalla poderosa installazione di Berra.
L’OPERA GIGANTESCA DI MATTEO BERRA A MILANO
Esattamente quattro anni dopo, l’artista originario di Pandino (Cremona) si sarebbe spento, appena 46enne: lo scorso 28 aprile i funerali, nella settecentesca chiesa di San Giovanni Evangelista a Canonica d’Adda, piccolo comune del bergamasco dove viveva con la moglie.
E torna, in questa coincidenza di tempi e di stagioni, l’eco di quel gigantesco oggetto plastico, testimonianza esemplare della ricerca di Berra e segno urbano importante, con i suoi 24 chilometri di tondini d’acciaio inossidabile saldati uno per uno, con pazienza e meticolosa cura, quasi a emulare con un procedimento manuale le stratificazioni eseguito da una stampante 3D. Un modo per sposare pratica artigianale e sapore industriale, materiali freddi e sinuosità dei volumi, evocazioni astratte, geometriche, tecnologiche, e richiami alla natura, alle sue forme vive, là dove i corpi, gli arbusti, le onde, le nuvole, le rocce si disegnano nell’incessante movimento del creato, piegandosi e dispiegandosi, generandosi, esaurendosi, trasformandosi.
L’opera milanese è al contempo un elemento solido avvinghiato all’edificio, un’immagine dinamica e poi una grotta, fenditura che diventa nido e ricovero. Scriveva il critico Alessandro Trabucco in un suo articolo su EspoArte: “La struttura abitativa determina nel suo sviluppo ad angolo una piega che Berra ha immaginato e composto come una lenta sedimentazione di materiale sino ad ottenere una forma definita ma comunque fluida e mossa, totalmente eterogenea rispetto a quella dalla quale si protende”. E a proposito di natura, di morfogenesi, di variabili e di processi, lo stesso artista dichiarava in un’intervista: “Potrebbe essere anche uno sperone di roccia, un tronco, uno scorticato che lascia intravedere i muscoli sotto la pelle”. La sfida: lasciare emergere l’essenza organica del building, la sua ossatura, gli strati epidermici, la massa ipertrofica.
Anche il soffitto dell’edificio di via Lucini era stato rivisitato da una seconda opera di Berra, “Blue Sky”, visibile attraverso il vano scala: 60 metri quadrati di continuum percettivo, per un tappeto avvolgente di 3000 solidi irregolari, tutti bianchi, a simulare un cielo stellato da cui s’irradiava una luce azzurra al calare della sera.
Nel complesso un’intuizione lungimirante, che anticipava il nuovo corso intrapreso pochi anni dopo da alcuni investitori immobiliari, a proposito di relazione tra nuove architetture private, spazio pubblico e progettualità artistica. Diceva ancora Berra, in occasione dell’opening di “Fold”: “Sarebbe bello camminare per strada e trovare altri palazzi così, con opere che nascono come private ma di fatto sono visibili a tutti”.
L’ESPERIENZA DI MATTEO BERRA IN COREA
Docente di scultura e decorazione all’Accademia Santa Giulia di Brescia, da anni nella scuderia della galleria Glenda Cinquegrana, Matteo Berra aveva trascorso quattro anni in Corea del Sud, dove aveva ricoperto il ruolo di Assistant Professor di Scultura alla Daegu Catholic University. Qui aveva realizzato diverse installazioni di grandi dimensioni, sviluppando un lavoro raffinato di natura ambientale, immersiva, costruttiva, sia indoor che en plein air. Al centro la fascinazione per i temi cosmologici, per l’astronomia e la biologia, per le voragini, le masse informi, i nuclei e i corpi solidi che descrivono lo spazio, le costellazioni, i sistemi planetari o molecolari. E ancora l’architettura dei piani smisurati e degli abissi, i fenomeni luminosi, le scritture siderali, modulari, molecolari. “New star, new birth” fu un’opera di land art realizzata nel 2011, vincitrice del “Sea art Festival”, nell’ambito della Busan Biennial: un ampio disegno tracciato sul pelo dell’acqua, o per dirla con le sue parole “un ricamo sul mare utilizzando polistirolo su filo, come fosse una collana”.
Prodotta invece per lo Yeongcheon Art Studio, “A Failed Attempt to Built a Galaxy” tornava a maneggiare l’immateriale e l’incommensurabile, nel tentativo di offrirgli un perimetro e una scansione. Tentativo mai centrato, eppure sempre rinnovato nella spinta immaginifica, simbolica, concettuale degli artisti. In quella tensione si consuma l’ineffabile relazione tra il visibile e l’invisibile, tra l’assoluto e il suo residuo trasfigurato, tra ciò che non si lascia afferrare e ciò che si nasconde, risuonando, tra le pieghe dell’immagine. Così, “Tentativo fallito di costruire una galassia” era la rappresentazione di uno sforzo di conoscenza e di formalizzazione. Era racchiudere un frammento d’universo in uno spazio abitabile: l’architettura di piccole sfere ordinate tracciava una trama possibile di stelle, tra il pavimento e le pareti.
La coscienza del limite e il bisogno del suo superamento sono alla base di tutto il lavoro di Berra. Come altri due affascinanti progetti realizzati in Corea, “Unspoken” (2016), allestito al Cyan Museum of Art, e “Nebula”, anche questo per lo spazio espositivo di Yeongcheon. Le stesse sfere scure, stavolta sospese nel vuoto, secondo uno schema matematico tridimensionale creavano una pioggia solida, una coltre plumbea o una nube di pulviscolo stellare. Materia oscura che, polverizzandosi, si faceva massa concreta attraversabile. Mai del tutto immobile, mai del tutto compiuta.
MATTEO BERRA. FRA TENEBRE E SUBLIME
Sulla stessa linea di ricerca era “Section of the Space Continuity” (2014), selezionato per il “Talent Prize 2016 ed esposto al Museo “Pietro Canonica” (Villa Borghese, Roma), a “L’erba cresce”, evento collaterale di ArtBasel 2014, e al “Fuorisalone” 2014. Tornava il tema dell’ideale forgiatura della materia fisica o effimera, grazie a questa struttura lignea che era un pezzetto di spazio srotolato, piegato, restituito attraverso calcoli numerici rigorosi. Un approccio che si faceva esercizio minuto d’astrazione nelle sculture di piccole dimensioni, e che diventava visione del sublime nei bellissimi acquerelli in bianco e nero (“Black Plan Sublime”), dominati da colonne liquide di fumo che bucano cieli bianchi e tagliano le linee del paesaggio.
Sulla pagina Facebook di Berra, fino a pochi giorni prima della morte, una serie di post dedicati a nuove sculture raccontava di un’attività ininterrotta, appassionata. Studi continui sull’informe, disegnando – come gli stessi titoli suggeriscono, da “Episodi di tenebra” a “Songs of darkness” – brani di materia pesante, porzioni di ombre e di buio. A partire dai bozzetti acquerellati o dai freddi schemi computazionali, il processo creativo fondeva sensibilità lirica, attitudine analitica e una robusta capacità costruttiva. Tenendo vivo l’enigma di ciò che stava e che sarebbe rimasto al di là della curva, della nube, della piega, dell’orizzonte visibile.
Helga Marsala
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