Festival Sabir
screening video Mediterraneo sensibile. L’orizzonte confinato, in programma al Teatro Miela di Trieste per il Festival Sabir.
Comunicato stampa
Festival Sabir
Libertà di movimento
Trieste, 11-13 Maggio 2023
https://www.festivalsabir.it/
11-13 Maggio 2023
Ridotto Teatro Miela, Trieste
Video screening
Mediterraneo sensibile
L'orizzonte confinato
Artisti
Andreco, One and only, 2016, 4'; Parata per il paesaggio, 2014, 3'51''
Filippo Berta, Gente comune, 2021, 10'01
Daniele Costa, Spazio Morto, 2018, 15’00’’
Caterina Erica Shanta, Talking about visibility, 2021, 31'24''
Il Festival Sabir, evento diffuso e spazio di riflessioni sulle culture mediterranee nei luoghi simboli dell’Europa, arriva a Trieste per la sua nona edizione, dopo sette edizioni tenutesi nel Sud Italia e una edizione online durante la fase pandemica. Il Festival è promosso da ARCI insieme a Caritas Italiana, ACLI e CGIL, con la collaborazione di ASGI e Carta di Roma.
All'interno del programma di Sabir, che oltre a decine di incontri prevede anche una serie di mostre, al Teatro Miela è in programma Mediterraneo Sensibile. L'orizzonte confinato. Il video screening presenta cinque opere di artisti ed artiste che hanno lavorato sui temi dei confini e delle migrazioni nel Mediterraneo negli ultimi anni, sviluppando pratiche artistiche nello spazio pubblico, progetti di ricerca e produzioni che interrogano le geografie sensibili del presente. I confini sono i luoghi stressati dalle retoriche nazionaliste, attraversati dai flussi migratori e controllati dalle politiche securitarie.
Sono luoghi periferici in cui si nasconde il cuore di tenebra dell'occidente civilizzato, in quanto rappresentano paradossalmente il centro di un disegno esclusivo e brutale che seleziona e respinge persone che migrano per avere diritto a un luogo sicuro.
Attraversare il confine significa comunque vivere una situazione di dislocazione e sradicamento, di riconfigurazione del sé all'interno di un nuovo paradigma culturale. In questo le pratiche artistiche, anche attraverso formati laboratoriali e partecipativi, provano ad aprire riflessioni e interrogativi sui processi di ricostruzione delle soggettività migranti da una prospettiva decoloniale.
Quello che viene proposto nello screening video è un processo continuo di decostruzione della realtà, una strategia di interrogazione di luoghi e soggettività che sono al centro delle narrazioni politiche e mediatiche del presente e che in questi video trovano un corpo, un nome, ridiventano paesaggi e storie. Come gli artisti e le artiste intervengono su un tema così delicato come quello delle migrazioni costruendo contro-narrazioni o ri-significazioni di luoghi ed immaginari?
Andrea Conte, Roma (1978)
dirige Studio Andreco, dove unisce una formazione scientifica, dottorato in Ingegneria Ambientale, collaborazioni post dottorato con Università di Bologna e Columbia University di New York sulle infrastrutture verdi per la gestione sostenibile delle risorse in diverse condizioni climatiche, con un percorso artistico che investiga i rapporti tra spazio urbano e paesaggio naturale, tra uomo e ambiente, realizzando progetti che vanno a comporre un’unica ricerca multidisciplinare. Partecipa a mostre e festival a livello internazionale. Le opere dello Studio Andreco sono state esposte in manifestazioni artistiche istituzionali, musei e gallerie di tutto il mondo tra cui La Biennale di Architettura di Venezia (2018), La Triennale di Milano (2018), la Saatchi Gallery di Londra (2017). Vincitore del Premio Speciale del “Talent Prize 2017” al Museo Macro di Roma. vincitore dei Bandi Creative living Lab 2018, 2019, finalista per l’Oscar alla comunicazione ambientale 2019 relativa ai Cambiamenti Climatici.
SINOSSI
Andreco
One and only, 2016, 3'51''
Prodotta per Walking, arte in cammino
L'installazione "One and Only" è composta da tre bandiere che raffigurano tre diverse immagini di cime di montagne stilizzate, reinventate e ridisegnate dall'artista. Due di queste bandiere sono visibili sul percorso: la prima è issata sul pennone che si trova sul confine tra Italia e Austria; l'altra è issata sulla cima della montagna tra la linea di trincea italiana e quella austriaca, nella terra di nessuno. Poiché il confine attraversava il Pal Piccolo dividendo la sua piccola superficie tra Italia e Austria, le rispettive linee di trincea erano molto vicine. Lo stato di guerra tra questi due popoli non corrispondeva alla realtà delle loro relazioni, che erano amichevoli e basate su scambi commerciali e personali. La guerra combattuta nelle trincee in cima alla montagna era una guerra tra vicini e amici. Da un punto di vista geomorfologico la montagna è la parte superiore della crosta terrestre ma allo stesso tempo, quando è attraversata da confini di Stato, diventa anche un ostacolo alla circolazione: durante la Grande Guerra il confine naturale del Canal Piccolo divenne un limite politico e un campo di battaglia. Andreco realizzò per il Pal Piccolo tre bandiere che rappresentano, nelle parole dell'artista, "una montagna che è una e unica", cancellando simbolicamente i confini. Per rappresentare questa idea, seguendo un metodo consolidato, l'artista ha sintetizzato le forme dei dati naturali in un'immagine astratta e parzialmente riconoscibile. L'installazione è così una dedica al Pal Piccolo, celebrato attraverso una bandiera paesaggistica formata da una successione di cime reali, ma anche un invito a meditare su un'idea di unità piuttosto che di separazione, come suggeriscono i punti di riferimento pensati per issare le bandiere.
Andreco
Parata per il paesaggio, 2014, 4'00’’
Performance prodotta da Ramdom e GAP
Video tratto da “Parata per il Paesaggio”, opera d’arte pubblica collettiva consistente in una performance frutto dell’interazione tra l’artista, gli abitanti del Capo di Leuca, l’associazione Ramdom e le componenti del progetto GAP.
Partendo dallo studio del territorio, l’artista realizza una parata con otto percussionisti e quattordici sbandieratori che, muovendosi da punta a punta del golfo di Leuca, uniscono simbolicamente Punta Ristola e Punta Meliso, ricongiungendo così i due amanti Aristula e Melisso che un’antica leggenda vuole divisi, per gelosia, dalla sirena Leucasia.
Inspirata anche dal lavoro del geografo Élisée Reclus, l’opera è una riflessione sul “Finis Terrae” dell’Italia e sulle caratteristiche geologiche e geografiche dell’area. Si pone come obiettivo la rivalutazione di alcuni aspetti legati ai confini del paesaggio.
Filippo Berta
Filippo Berta Treviglio (Bg) (1977)
Artista e Docente presso la Modena Photography Foundation, Italia Artista e Docente presso la Fondazione Fotografia di Modena .La sua ricerca artistica mostra le tensioni sociali causate dal rapporto tra gli individui e le società di appartenenza. I confini che definiscono questa condizione dialettica, spesso conflittuale e problematica, sono il tema delle sue opere. I suoi lavori sono principalmente performance collettive, spesso riassunte in un'unica immagine iconografica e in brevi ed essenziali video. Dal 2012 espone nei principali musei italiani ed internazionali. Ha preso parte a numerosi festival internazionali; Con One by One è Vincitore della V edizione del bando Italian Council (2019), del MiC per promuovere l'arte contemporanea italiana nel mondo.
Filippo Berta
Gente comune, 2021, 10'00’’
Tra il 2019 e il 2020 Filippo Berta ha attraversato l’Europa orientale (Ungheria, Serbia, Slovenia, Croazia, Turchia, Macedonia del Nord, Grecia, Bulgaria), per arrivare in America (Stati Uniti e Messico), e infine in Asia (Corea del Sud), realizzando riprese video e azioni partecipative con il coinvolgimento degli abitanti delle aree di frontiera, chiedendo loro di contare ad alta voce, e nella propria lingua di appartenenza, le spine che costituiscono i fili di recinzione. Un’azione rituale che si realizza attraverso la gestualità delle mani nell’atto di indicare ogni singola spina e il suono della voce che recita il conteggio come in un’intima preghiera. L’azione, replicata su otto confini di stato in cui centinaia di chilometri di muri interrompono la terra, denuncia la ricerca di un risultato impossibile: l’incapacità di intravedere una fine, un conteggio utopico ripetuto all’infinito che si dilata tra spazio e tempo, tra passato e futuro, non lasciando presagire la fine di questo fenomeno.
Gente comune intende offrire un’occasione di riflessione sui meccanismi che si instaurano nella mente dell’essere umano quando l’esperienza del quotidiano porta a convivere dentro una logica di confinamento o esclusione, quando la relazione con ciò che è prossimo è interrotta dalla presenza, reale e simbolica, di confini controllati, muri e barriere.
Daniele Costa Castelfranco Veneto (1992).
Inizia la pratica artistica nel 2014 dedicandosi prevalentemente al video. Dopo la laurea di primo livello in Discipline delle Arti Musica e Spettacolo all’Università di Padova, completa gli studi in Arti Visive nel 2017 presso l’Università IUAV di Venezia. La sua ricerca si focalizza sulla conoscenza del corpo umano in due direzioni di introspezione personale. Da una parte il funzionamento interno del corpo umano, basata su approfondimenti medico-scientifici, dall’altra la singolarità umana, la conoscenza dell’individuo in rapporto alla sua storia, al suo mondo e alla sua persona. I suoi progetti sono stati presentati in istituzioni e festival quali MAXXI Roma, Fondazione Spinola Banna e GAM Torino, National Gallery of Art Tirana (AL), House of King Peter I Belgrado (RS), Museo di Arte Contemporanea di Salonicco (SKG), Artevisione Careof e Sky Arte (Milano), Fondazione Bevilacqua la Masa (Venezia).
Daniele Costa
Spazio Morto, 2018, 15’00’’
Il termine spazio morto richiama a sé la distinzione elaborata dallo psichiatra francese Eugène Minkowski: lo spazio vivo è inteso come spazio in cui si muove un soggetto, o in generale un corpo vivente, come spazio significativo, organizzato intorno a interessi vitali di quel vivente, e lo spazio morto, che al contrario è lo spazio astratto in cui i gradienti di interesse e significatività sono stati come aboliti, quello spazio che resta quando non c’è più la vita che lo “lavorava”. Da qui nasce l’idea di prendere in esame lo spazio vissuto da un ragazzo senegalese chiamato Papis, arrivato in Italia nel 2007 e costretto a nove anni di clandestinità per una burocrazia lenta. Papis fa il bagnino di terra, ogni mattino si prende cura della sabbia della costa veneziana, cancellando le tracce lasciate dai bagnanti il giorno prima e azzerando lo spazio vissuto. Il progetto cerca di analizzare lo spazio che lui stesso vive ogni giorno, cercando di far emergere quella dicotomia tra spazio vivo e spazio morto, dato dalla quotidianità vissuta da un immigrato al Lido di Venezia. La spiaggia, come la terra, fa parte del suo vissuto quotidiano: la capanna 27 è lo spazio dove dorme e vive, l’orto è il luogo di riparo dove lui si reca dopo lavoro, la capanna fronte mare è quello spazio che lo accoglie dopo pranzo, dove rimane a riposare. Tutto questo entra in una ciclicità quotidiana, una sorta di respiro che si ripete, il respiro unico di una persona che potrebbe trasformarsi nel respiro di molte persone.
Caterina Erica Shanta Germania (1986)
Vive e lavora a Pordenone; è artista e regista e si forma a Venezia dove ottiene un Master in Arti Visive allo UAV. Il suo principale mezzo di indagine è il video,con film basati su archivi privati e pratiche di cinema collettivo. Ha partecipato a residenze artistiche come Atelier Fondazione Bevilacqua La Masa (Venezia - IT), Careof Art Residency (Milano - IT), nonché a programmi per artisti come VISIO - European Programme on Artists' Moving Images presso Lo Schermo dell'arte Film Festival (Firenze - IT)
Il film è il risultato di un laboratorio di cinema collettivo che l’artista ha realizzato a Torino lavorando con rifugiati e persone dal passato migratorio. Assieme hanno iniziato a intrecciare una storia che getta le sue radici nei film amati da ciascuno di loro durante l’infanzia. Queste memorie cinematografiche, in dialogo continuo, diventano qui un terreno di scambio e negoziazione per interrogare l’immaginario che scrive i luoghi del nostro odierno convivere: le piazze e i monumenti torinesi con la loro storia si trasformano in un teatro che accoglie i racconti dei partecipanti al laboratorio, le cui origini sono perse tra i confini delle geografie attraversate.