Susana Pilar Delahante Matienzo, l’artista che combatte il patriarcato con la propria storia
In mostra da FOROF a Roma, l’artista cubana presenta la sua ricerca, fondata sulla storia delle proprie origini e della propria famiglia. Combattendo gli stereotipi di genere e il colonialismo. L’intervista
È incentrata sul corpo inteso come “archivio” in azione per la conquista di una condizione di libertà fisica e mentale la performance Abriendo pasos/Opening paths che l’artista cubana Susana Pilar Delahante Matienzo (L’Avana, 1984) ha ideato e realizzato nell’ambito del progetto FOROF Essenza | Episodio 1 (a cura di Veronica Siciliani Fendi) da FOROF a Roma.
Il video di documentazione, gli acquarelli e a una scultura preparatoria sono esposti con le opere Historias Negras (2022), Resistencia (2019) e El Tanque (2015-16) nella mostra No necesitamos muros/We don’t need walls, allestita fino al 28 maggio nei medesimi spazi.
INTERVISTA A SUSANA PILAR DELAHANTE MATIENZO
Per FOROF, che sorge sugli scavi della Basilica Ulpia dove, attraverso l’atto della “manumissio”, gli schiavi romani potevano riacquisire la propria libertà, hai concepito un’opera performativa legata proprio al tema della libertà, che rappresenti come qualcosa da conquistare faticosamente.
Con il mio lavoro rifletto sul tema della libertà come qualcosa di fisico ma anche mentale. Un modo per riscrivere la storia di noialtri, persone nere di origine africana, che è legata a determinati canoni e pregiudizi rappresentati nella mia pratica artistica come barriere reali.
In particolare, in Abriendo pasos, la conquista della libertà avviene attraverso l’uso dell’argilla.
L’argilla è una materia creativa che da sempre è in relazione con il corpo umano. Nella mia idea della performance c’è quella di “disegnare” con questa materia creando un muro, una barriera, uno spazio che posso attraversare per trasformarlo metaforicamente in un punto d’accesso. Nel momento storico in cui viviamo ci sono più barriere che punti d’accesso. Barriere che sono aumentate con il Covid. A partire dai vaccini: c’erano Paesi che ne possedevano tanti e altri nessuno. Mi riferisco anche alle difficoltà d’accesso a determinati luoghi in base alla nazionalità d’origine o a causa dei conflitti, nonché, tornando alla pandemia, ai tanti limiti posti tra gli esseri umani: uscire di casa, incontrare gli altri. Passando faticosamente attraverso queste barriere, rappresento il bisogno che abbiamo di spazi inclusivi, per tutti, con meno discriminazioni.
Nel tuo lavoro di matrice femminista sono state di grande ispirazione le figure della tua famiglia matriarcale?
Sì, nell’installazione Lo que contaba la abuela (2017) sono una presenza particolarmente forte anche nello spazio. È molto difficile che l’osservatore non venga coinvolto. Sono donne “militari” che mi hanno generato. Allo stesso tempo, nell’aprire l’archivio della mia famiglia, mostro anche uno spazio di vulnerabilità. In quest’opera invito il pubblico a entrare nella mia casa, nella mia famiglia, nel mio archivio, nella mia storia personale. Ho pensato che, transitando all’interno dell’opera, le persone si sarebbero integrate, riflettendosi nella mia famiglia per farne parte.
In Lo que contaba la abuela i grandi lightbox mostrano delle donne sicure di sé, elegantissime negli abiti della festa che indossano con orgoglio. C’è anche l’idea di sovvertire un certo stereotipo della donna nera?
Molte donne della mia famiglia sono state madri sole. È il caso di mia madre Asunción (Susy) e di sua madre, mia nonna Lucrecia (Quecha), della bisnonna Gregoria (Goyita) e delle zie Meli e Mima. Hanno fatto tutto da sole: lavorare, mandare avanti la casa, allevare i figli tra L’Avana e Matanzas. L’opera riflette la forza di queste donne, del loro essere madri e anche il desiderio di scardinare uno stereotipo per mostrare alla società che si può fare. Parlo della storia di donne che conosco e che hanno lavorato duro da mattina a sera per far sì che noi figli ricevessimo una buona educazione.
Quale ruolo giocò l’archivio?
In questo contesto l’archivio è molto importante. Infatti non esiste alcun archivio delle persone nere con discendenza africana: è stato cancellato durante il periodo coloniale. Me ne sono resa conto quando sono andata all’archivio di Matanzas per fare una ricerca sulla storia della mia famiglia. A Cuba, soprattutto durante il colonialismo, gli schiavi africani ‒ inclusi i miei antenati ‒ e i cinesi che lavoravano in condizioni degradate non esistevano se non come numeri. Quando è presente il nome, è per una ragione negativa. Si trattava, ad esempio, di schiavi che avevano cercato di fuggire, che si erano suicidati o avevano provato a innescare una ribellione. Ho cercato di trovare informazioni in questo archivio rimosso per raccontare la storia della mia famiglia. Creare il mio archivio personale e renderlo accessibile a tutti è stata una forma di ribellione.
ARTE E VITA DI SUSANA PILAR DELAHANTE MATIENZO
Sei un’artista per la quale vita e arte coincidono: quanto sono stati importanti i racconti di tua nonna e di tua madre nella tua crescita personale e professionale?
Mia madre è la persona che mi ha appoggiato di più fin da quando ero bambina e manifestavo il mio interesse per l’arte. Mia nonna a quell’epoca era già morta. Anche le zie mi hanno sempre sostenuta. In un altro lavoro, Un chino llega a Matanzas (2015), ho registrato le voci della mia prozia mentre mi racconta storie sulla mia famiglia che non conoscevo, come quella del papà della mia bisnonna che era originario di Canton in Cina. Tanti cinesi, all’epoca coloniale, erano arrivati a Cuba con la speranza di lavorare e diventare ricchi, ma di fatto venivano trattati come gli africani. Molti cinesi si mescolarono con gli africani, come i miei avi. Insieme all’intervista ci sono vari teli, alti anche dieci metri, su cui con l’inchiostro cinese ho scritto un poema che non ho finito. Storie della mia famiglia e di quelle persone la cui storia esiste solo attraverso la narrazione orale.
Nel video El Tanque tua mamma ti pettina i capelli cercando di addomesticarli, ciocca dopo ciocca. L’atto liberatorio, però, è quando alla fine ti riappropri della tua identità immergendo la testa nel secchio pieno d’acqua. Quest’opera affronta il tema dei cliché dei canoni della bellezza, ma parla anche della tua relazione con tua madre.
Quest’opera parla della relazione con i miei capelli. Fin da bambina sono cresciuta con l’idea che per essere belle si deve soffrire. Questa frase l’ho sentita ripetere nella mia famiglia, tanto da esser convinta che fosse naturale che mi passassi il pettine caldo nei capelli per renderli lisci, facendo attenzione a non muovere la testa per non rischiare di bruciare la cute. Ma perché non potevo sentirmi bella con i capelli al naturale? Volevo sentirmi libera e, allo stesso tempo, dimostrare alle altre donne che anche loro potevano esserlo, rompendo le regole imposte dalla società patriarcale con i suoi canoni estetici, che per la donna nera significano avere capelli lisci, essere depilata, truccata. El Tanque parla anche di due diverse generazioni a confronto. Per me è stato importante che ci fosse mia madre perché appartiene a quella generazione che crede che le donne nere debbano avere i capelli lisci. L’ho invitata a passarmi il pettine caldo nei capelli, come faceva quando ero bambina, per rendere questo processo simbolico. L’acqua rappresenta la pulizia, ma come materia è nemica del pettine elettrico. Quando si passa il pettine, la donna è molto limitata nei movimenti: non può andare in spiaggia né bagnarsi con la pioggia e deve proteggere i capelli coprendoli con un berretto. Con l’acqua i capelli tornano allo stato naturale. Decolonizzare il pensiero, questo è il mio lavoro.
La performance è la forma d’arte con cui ti esprimi principalmente. Ci sono delle artiste o degli artisti che consideri dei mentori?
Fin dall’inizio ho trovato stimolante mettermi davanti alla macchina fotografica utilizzando il mio corpo come materia di lavoro, archivio e testimonianza per parlare anche di realtà come la violenza fisica subita dalle donne. Era molto importante utilizzare me stessa, perché anch’io ho subito la violenza fisica e attraverso questa mia esperienza mi relaziono con quella delle altre. Poi, però, mi sono sentita più libera con l’immagine in movimento e la performance, che è più diretta e coinvolge il pubblico. Alcune volte, nelle performance, il pubblico diventa parte del processo stesso. Il mio riferimento principale è Ana Mendieta. Indipendentemente da tutte le sue opere che, in generale, trovo fantastiche, mi affascinano la sua energia, la personalità. Dopo aver visto in Austria una retrospettiva dedicata al suo lavoro (Ana Mendieta. Traces, Museum der Moderne Salzburg, 2014, N.d.R.), tornata a Cuba, dove ero stata invitata a partecipare alla Biennale d’Arte dell’Avana, una notte sognai che dovevo fare una cerimonia per lei. Con un mio amico che pratica la religione afro-cubana degli Yoruba abbiamo parlato con un babalawo che, nello stesso giorno della cerimonia, dopo aver ricevuto l’autorizzazione dallo spirito di Ana Mendieta, ha realizzato il rituale del cajón per richiamare lo spirito dell’artista. Durante il cajón si balla, si mangia, si beve, si suona. Il Cajón per Ana Mendieta è stato come una festa.
Manuela De Leonardis
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