Pragmatismo e impegno civile: parlano i curatori del Padiglione Italia alla Biennale Architettura
Non raggiungono i 40 anni i membri di Fosbury Architecture e si sono misurati con un ruolo complesso: dare voce ai territori e all’idea di riqualificazione nell’ambito della Biennale diretta da Lesley Lokko
Sono in cinque, tutti fra i 33 e i 35 anni, e hanno già compiuto nel 2018 un’impresa gigantesca: mappare 700 dei presunti 1400 ecomostri italiani con un libro (INCOMPIUTO: La nascita di uno Stile, realizzato con Alterazioni Video nel 2017-18) che passerà alla storia. Il Ministero della Cultura, meritoriamente, li ha selezionati per rappresentare l’Italia in questa 18esima edizione della Biennale di Architettura, che segna la maturazione di un ribaltamento di paradigma, quello tradizionalmente occidentale, per aprire la strada alle voci nuove che emergono soprattutto nel continente africano e che potrebbero fornire idee valide per il futuro. Ma i membri di Fosbury Architecture pensano all’Italia e al presente: sono pragmatici, non danno giudizi, spendono metà del budget del loro padiglione (circa 600mila euro tra fondi pubblici e sponsor) per sovvenzionare i progetti in mostra. Impiegano il loro tempo a fare rete con altri “praticanti” (coloro che mettono in pratica) al fine di creare progetti di riqualificazione e risignificazione di quegli spazi urbani e rurali, pubblici e privati, che sembrano abbandonati o sottoutilizzati, ma possono diventare risorse per le comunità e promuovere valori edificanti e socialmente condivisibili.
Abbiamo incontrato uno di loro, Nicola Campri (gli altri sono Giacomo Ardesio, Alessandro Bonizzoni, Veronica Caprino e Claudia Mainardi), ed è stato sufficiente. Perché i Fosbury sono un po’ come i moschettieri di Dumas: “Tutti per uno, uno per tutti”. E seguono le orme tracciate da un collettivo di una generazione precedente, Alterazioni Video, nato un decennio prima di loro.
INTERVISTA A NICOLA CAMPRI DI FOSBURY ARCHITECTURE
L’età media dei partecipanti al vostro padiglione è 33,5 anni. Siamo di fronte a un padiglione generazionale: cos’è per voi trentenni l’architettura?
Questo padiglione racconta di giovani architetti che hanno a che fare con uno stato definito di “permacrisi”: ovvero una condizione di crisi permanente, che risulta dal susseguirsi di crisi finanziaria, ecologica, pandemica e politica, dal 2008 a oggi. È una generazione di architetti abituata a lavorare in un contesto di scarsità.
In che senso?
Il tessuto urbano è stato in gran parte costruito e gli architetti assumono il ruolo di ricucire l’esistente piuttosto che di creare nuovi manufatti. Le sfide che sentiamo come progettisti sono cambiate. L’Italia, inoltre, è uno dei Paesi in cui c’è un’eccezionale densità di architetti (uno ogni 400 persone, mentre in Cina il rapporto è di uno a 40mila). Ciò fa sì che un gran numero di architetti italiani abbia poche possibilità di lavorare sul territorio.
Ma questo cambia dunque l’idea che il giovane architetto ha di se stesso: non più Vitruvio, Alberti o Palladio, ma neanche Rossi o Piano.
Non più l’architetto autore che esprime demiurgicamente un’idea risolutiva, ma un architetto che si pone come mediatore, come un agente di cambiamento che possa operare in comunità esistenti e andare oltre la disciplina, operando in un contesto di contaminazione tra i saperi.
Però l’architetto rimane un po’ il deus ex machina di questa contaminazione dei saperi?
È più un regista, un mediatore tra una rete di intelligenze.
IL PADIGLIONE ITALIA ALLA BIENNALE ARCHITETTURA 2023
La contaminazione di cui si iniziava a parlare negli Anni Novanta del secolo scorso voi la date ormai per scontata.
Sì, infatti i nostri sono tutti progetti di co-progettazione. I progetti invitati sono stati assegnati a gruppi di progettisti, piccole pratiche fino a grandi collettivi, ma tutti under 40; sono tutti affiancati da figure che chiamiamo advisor, persone esperte di altri ambiti creativi.
Quando parli di pratica, di cosa stai parlando esattamente?
Il lessico dell’architettura cambia. Si tratta di un termine utilizzato anche nella mostra di Lesley Lokko e intende uno studio di architettura capace di operare in contesti più piccoli. Fanno da contraltare ai grandi studi di progettazione, ma sono capaci di ricucire fratture e ferite con piccoli progetti estremamente locali e specifici.
Questa concezione di pratica sembra distante da un certo idealismo grandioso, tipico dei progetti delle archistar, e sembra preferire il giardino urbano al museo, l’ospedale non finito al grattacielo.
Soprattutto serve a estendere lo spazio pubblico: molti progetti che presentiamo lavorano su una geografia spesso dimenticata. I nostri invitati hanno avuto la capacità, ad esempio, di trovare spazio pubblico sulla facciata laterale di una chiesa, a Marghera, che dal 1997 viene usata anche come parete per arrampicare. In provincia di Chieti, in Abruzzo, un ospedale abbandonato ha subito un processo di risignificazione diventando il Parco dell’Uccellaccio, dove un percorso in sicurezza consente di visitare l’edificio e ricollocarlo all’interno del paesaggio.
Mi stai dicendo che gli ecomostri si possono recuperare?
Sì, a patto che i proprietari degli edifici siano d’accordo e consentano di operare sugli spazi.
Voi avete fatto enormi ricerche, ma avete capito che fine abbiano fatto i colpevoli nel caso abruzzese?
Questo è un aspetto importante, il primo a fare una ricerca di tipo morale è stato il Gabibbo di Striscia la notizia, il programma di Antonio Ricci. Però noi abbiamo un altro tipo di atteggiamento e vediamo queste opere come luoghi di possibilità: un vero e proprio stile (incompiuto) che ci chiama a dare agli edifici nuove funzioni e nuovi programmi.
L’EREDITÀ DEL PADIGLIONE ITALIA 2023
Etica ed estetica vanno di pari passo, sembra, e avete anche usato le risorse in senso pragmatico.
Abbiamo colto l’occasione di questa partecipazione per sviluppare dei nuovi progetti usando la metà delle risorse a nostra disposizione per alimentare le pratiche che qui si vedono in atto. Vogliamo estendere la geografia del padiglione oltre se stesso. Ci sono anche progetti pionieristici che abbiamo avviato e tutti hanno cercato e trovato ulteriori sovvenzioni, tra bandi e sponsor.
Ma questi luoghi ricuciti vengono sempre utilizzati o ci abita poca gente intorno?
Sono luoghi a volte anche dimenticati, come ad esempio i bunker della Seconda Guerra Mondiale vicino a Trieste, dove si sono sviluppate delle vere grotte artificiali. Gli autori hanno lavorato per creare un paesaggio di voci, suoni e musiche italo-slovene per ricucire il passato al presente.
Quanto è importante la narrazione per voi?
Molto. Ogni progetto presentato in Spaziale. Ognuno appartiene a tutti gli altri è una micro storia che tocca temi che su scala globale rappresentano delle sfide impossibili, come il multiculturalismo, la transizione ecologica, quella digitale e alimentare. Ma se vengono sviluppati in una dimensione territoriale più piccola, allora diventa possibile avere delle soluzioni tangibili. La narrazione è quindi un modo per dare un nuovo senso all’esistente.
Nicola Davide Angerame
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