Il futuro delle città e dell’abitare nel nuovo libro di Bertram Niessen
Pandemia e cambiamento climatico inducono a rivedere costantemente i nostri modelli di relazione con lo spazio urbano e non. Qual è il ruolo degli artisti nella complessa epoca storica in cui siamo immersi? Le riflessioni di Bertram Niessen nell’estratto del suo libro “Abitare il vortice”
Verso alleanze non umane
Le fratture nell’immaginario – così come quelle nelle esperienze – portate dalle nuove relazioni tra umano e non umano hanno un’enorme potenzialità per la ridefinizione delle città che abiteremo in futuro. Sul piano personale e collettivo, culturale e politico ci troveremo di fronte, in modo sempre più pressante, alla necessità di ripensare il rapporto tra umano e animale, tra umano e vegetale, tra umano e non umano. I primi a essersene resi conto sono, come spesso succede, gli artisti. Credo che uno degli esempi più interessanti in questo senso sia il lavoro dell’autore di fumetti Alan Moore. Durante gli anni ottanta, nel periodo che poi divenne noto come british invasion, Moore fu uno dei giovani autori inglesi chiamati a dare nuova vita a testate statunitensi defunte, congelate o moribonde. Nello specifico, gli chiesero di rilanciare la saga di The Swamp Thing (la cosa della palude). Si trattava di un fumetto fortemente ancorato agli immaginari dei b-movie e dei film dell’orrore, con uno sguardo tipicamente adolescenziale: uno scienziato vittima dell’esplosione di un laboratorio di sostanze chimiche cade in una palude, trasformandosi in un mostruoso essere ibrido uomo-pianta. Moore usò questo canovaccio per rendere il mostro della palude l’emblema della tensione tra umano e naturale, scavando le dicotomie della morale reaganiana imperante e trasformando le paludi – e i confini tra le paludi e i centri abitati – nel teatro di lotte politiche ed esistenziali. Con una chiave di lettura dichiaratamente anarchica, le figure più trite dell’horror di serie b vennero rese attuali combinando domande di ordine metafisico sul rapporto tra esperienza umana e ordine naturale con istanze di ribellione legate alle disuguaglianze sociali. Così, nell’episodio The Curse (La maledizione), una massaia della periferia suburbana statunitense si trasforma in un lupo mannaro tra le corsie di un supermercato, tracciando una linea di continuità poetica tra l’animalità repressa nella cultura occidentale e la condizione di minorità assegnata al femminile in diverse culture. In Strange Fruit, invece, le riprese di un film sulla storia delle piantagioni causa l’apparizione di un’orda di zombie, in un crescendo granguignolesco satirico che rimette in scena i rapporti di potere sul luogo di lavoro e il razzismo costitutivo della società statunitense. Ma è nel dialogo tra Swamp Thing e l’Uomo Floronico che Moore indaga in modo più detonante la necessità di ripensare il rapporto tra essere umano e natura: in queste pagine, l’antagonista cerca di distruggere le città manovrando le piante contro case e persone, nella pretesa di rappresentare la natura contro i crimini dell’uomo, finendo poi per doversi rendere conto che questa separazione è totalmente arbitraria, ancora completamente umana.
Riletto oggi, il lavoro di Moore è forse ancora più impressionante. Innanzitutto, perché è in grado di articolare questioni estremamente complesse in poche tavole, restituendone l’ambiguità e le sfumature, senza pretendere di semplificarle all’osso e senza perdere – al tempo stesso – una radicalità di posizionamento politico. E, in secondo luogo perché anticipa con il linguaggio pop dei fumetti alcune delle punte più avanzate della riflessione filosofica contemporanea, scoprendo i nervi della separazione artificiale e impossibile tra umanità e natura.
A distanza di oltre trent’anni, questa tensione è tra le più indagate del mondo dell’arte. In alcuni casi è il frutto di un’inevitabile moda che inserisce tematiche come l’antropocene e la relazione umano/non umano in pratiche e linguaggi abusati. In altri casi è il reale tentativo di trovare nuovi modi per pensare e agire queste trasformazioni. Tra questi ultimi si situa, per esempio, l’artista italiano Andrea Conte, altrimenti noto come Andreco. Con un passato saldamente radicato nei movimenti sociali libertari e un percorso di ricerca accademico in ingegneria ambientale, Andreco ha sviluppato delle pratiche che cercano di spostare la percezione del confine tra natura e cultura di fronte al cambiamento climatico. Il suo linguaggio integra la conoscenza scientifica istituzionale (i dati sulla qualità del terreno e delle acque raccolti dagli enti riconosciuti) e la citizen science (i dati raccolti da volontari e attivisti) con la data visualization, la street art e le performance. In Climate 04 Sea Level Rise, attraverso una serie di workshop con studenti e attivisti, l’artista ha rappresentato su un murale lungo cento metri sul Canal Grande a Venezia l’innalzamento del livello medio del mare e le onde estreme, cercando un modo concreto di mettere gli abitanti di fronte agli stravolgimenti nella vita della città previsti negli anni a venire. In una serie di altri lavori – come La parata della fine a Prato e La parata tiberina degli inizi a Roma, sull’isola omonima – Andreco ha messo in scena dei cortei che riportano al centro dell’immaginario dello spazio pubblico quei fiumi che attraversano le città e che per lungo tempo sono stati resi invisibili. Con riferimenti all’incrocio tra il rigore militare, la radicalità estetica del black block e le ritualità pagane, i performer calzano passamontagna, suonano tamburi e sventolano vessilli sui quali sono rappresentati fiumi, piante e rocce. È un modo interessante di lavorare con arte e scienza per provare a scavare nei recinti del simbolico, allargando le fratture nelle nostre certezze consolidate e proponendo forme nuove e diverse di azione collettiva.
Non è un caso che nel suo percorso di ricercatore Andreco abbia studiato le nature-based solutions: con questo termine si indica un vasto insieme di azioni che puntano a mitigare o contrastare il cambiamento climatico, la riduzione della biodiversità e l’inquinamento a partire dalla gestione progettuale, architettonica e ingegneristica di elementi naturali. Ne sono un esempio i green roofs (“tetti verdi”, coltivati con orti o giardini), che in molte città europee vengono sperimentati per ridurre la temperatura urbana e migliorare la qualità dell’aria. O le forestazioni urbane, ambiziosi progetti di reintroduzione massiva delle piante in contesti fortemente antropizzati. O, ancora, i progetti di fitodepurazione (depurazione attraverso le piante) di aria, acque e terreni. Secondo l’Intergovernmental Science-Policy Platform on Biodiversity and Ecosystem Services (ipbes), le nature-based solutions possono costituire fino al 37 per cento della mitigazione d’impatto climatico necessaria a raggiungere i tetti per il 2030 previsti dagli accordi di Parigi.
Non c’è alcun dubbio che la forma delle nostre città dovrà essere necessariamente ripensata a partire da strategie di questo tipo. Perché non siano solo iniziative calate dall’alto, tuttavia, non basta considerare gli aspetti tecnici e progettuali. Basterà un esempio. Nel 2019 è stato avviato nell’area della Città Metropolitana di Milano un ambizioso progetto di forestazione urbana chiamato ForestaMi, con l’obiettivo di mettere a dimora 3 milioni di alberi entro il 2030. Durante la siccità dell’estate 2022, però, un numero rilevante di piante si è seccato, al punto da far nascere un comitato informale di cittadini per la cura autonoma delle piante, ForestaMi e poi DimenticaMi. È ancora presto per sapere quante piante siano effettivamente morte durante l’estate, e quante siano state oggettivamente salvate da un intervento volontaristico attivato tramite i social media. Quello che è certo è che perché la nuova presenza della natura nelle nostre città possa avere un senso condiviso – essere, cioè, il veicolo e la conseguenza di una presa di consapevolezza collettiva su una sostenibilità necessaria – è fondamentale che le soluzioni non siano solo di tipo tecnico e calate dall’alto, ma che siano anche il frutto di una nuova idea di responsabilità e di cittadinanza. Una nuova idea che non può non passare dalla trasformazione dei nostri apparati simbolici e culturali.
Ma che può, soprattutto, portarci verso l’immaginazione e la pratica di nuove forme di alleanze, che possono allargare e rafforzare i glossari e le grammatiche del collettivo includendo gli attori non umani. Se qualche anno fa a molti poteva sembrare un vezzo o un’irruzione forzata del mondo della teoria in quello della vita vera, oggi è sempre più chiaro che non è così. Ci è richiesto dall’entità di quello che dobbiamo affrontare.
Poco più di due anni fa un nuovo centro culturale a Biella – lo spazio Hydro, all’interno di Cittadellarte Fondazione Pistoletto – fu completamente spazzato via dal fiume Cervo in una notte di piena. Non ci furono perdite umane, ma la perdita dello spazio e delle attrezzature fu un evento traumatico. Gli attivisti della città avrebbero potuto reagire in tanti modi. Quello che scelsero si è rivelato il più generativo. Mentre trovavano ospitalità temporanea in altri spazi e progettavano i passi successivi, organizzarono Fluviale, un festival diffuso fatto di incontri, laboratori e performance per indagare i rapporti possibili tra il fiume e chi vive sulle sue rive.
Avevo dato un po’ una mano nella curatela, così mi invitarono a moderare uno degli incontri. Osservando la sfilza di capannoni, immagine plastica della trasformazione del settore tessile dall’artigianato medioevale nelle gigantesche industrie dell’Ottocento e del Novecento, non era difficile immaginarsi come si era generata la piena che aveva travolto lo spazio. Molti stabilimenti erano stati adibiti ad altre funzioni e molti altri erano ancora abbandonati. Le loro pareti lisce e senza appigli sembravano l’ideale per incanalare e moltiplicare la forza distruttiva della massa d’acqua.
L’incontro era affollato di artisti e attivisti che cercano di indagare l’inquinamento e il dissesto idrogeologico dalla prospettiva dei fiumi. E di giuristi che si stanno interrogando su come mutuare anche in Italia le esperienze internazionali di diritto che incorporano i saperi indigeni sui fiumi nella prospettiva dei beni comuni. In tutto questo, il Cervo e gli altri corsi d’acqua prendevano forma come entità, come presenze che – anche se non hanno quella che potremmo definire come una soggettività – interagiscono quotidianamente con chi vive attorno a loro. La domanda dei presenti era chiara. Come possiamo costruire alleanze con il fiume? Come possiamo costruire percorsi di collaborazione che mettano assieme abitanti e territorio, umani e non umani, senzienti e non senzienti?
Ed è questo tipo di domande – credo – che dovremo imparare a farci tutti, e alla svelta. Negli anni del riscaldamento globale, dovremo trovare nuovi immaginari, politiche e rituali per collaborare – dentro e fuori le città – con le acque, i paesaggi, le piante, il suolo e gli animali. Non abbiamo altra scelta. E potrebbe anche essere divertente.
Bertram Niessen
Bertram Niessen – Abitare il vortice
UTET, Milano 2023
Pagg. 256, € 18
ISBN 9791221205053
https://www.utetlibri.it/
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