Fabrice Bernasconi Borzì – E’ questo che sognavo da bambino? (Parte II)
Mostra personale.
Comunicato stampa
Fabrice Bernasconi Borzì
E’ questo che sognavo da bambino? (Parte II)
(a cura di Ilaria Monti)
Un paniere scende lento dal balcone di una casa, in risposta al grido dal basso di un uomo o una donna: “Cala u panaru!”. Scende e sale il pane caldo come un piccolo miracolo custodito in un cesto di rami intrecciati. Consumato il pane, tutti scompaiono, nessun vociare tra i cortili condominiali, nessun rumore di pentole e cassetti dalle cucine. Resta il silenzio, il paniere di briciole che oscilla per una corrente d’aria o un vento da chissàdove, venti moderati dai quadranti nord occidentali, il Maestrale, lo Scirocco. È questo che sognavi da bambino, Fabrice?
L’immagine del tipico panaru siciliano, cristallizzata dall’artista in questa seconda parte di un più ampio progetto dedicato al recupero delle proprie radici italiane, è una cartolina nostalgica di un viaggio a ritroso dalla Ginevra a Catania. Il paniere, che l’artista lascia pieno e sospeso nel vuoto, evoca abitudini, rituali e necessità che ad oggi sopravvivono nelle comunità del Sud Italia e del Mediterraneo come pratiche ancora in atto o, in qualche caso, come souvenir turistici. Tra i rami e le fibre del cesto, frutto di una cura e di un sapere artigiano, Fabrice Bernasconi ripercorre la storia di un mestiere tradizionale e antico quale quello dei canestrai e, con pochi altri elementi – il pane della sua terra, una leggera brezza – suggerisce una precisa dimensione geografica e antropologica, la sradica e poi la porta con sé. Il risultato è ironico e insieme poetico: come in un sogno di cui resta soltanto un ricordo mosso, l’artista crea una visione sintetica, che possa rintracciare e ricostruire l’esperienza vissuta. Quei venti che scuotono panieri e panni stesi, allora, soffiano da un semplice ventilatore. In questo necessario confronto tra tecnologia e artigianalità, gli elementi dell’opera stridono parlando due lingue diverse. Richiamando un oggetto folclorico e i simboli di una cultura locale, l’opera mette in gioco, provocatoriamente, certe dinamiche dello sguardo e della sua fascinazione per l’altrove. Si torna nel proprio luogo natale e dopo anni e lo si riscopre attraverso piccoli gesti quotidiani o oggetti che avevamo dimenticato. Si va per paesi prima sconosciuti, con la fame di coglierne la verità più essenziale che solo la vita quotidiana riesce a rivelare, affascinati da forme del sacro che non ci appartengono. Così la dimensione puramente contemplativa dell’opera genera una forma di spaesamento che non potrebbe trovare corrispondenza migliore di questi versi del peota Giorgio Caproni (da Il muro della Terra, 1975):
Sono tornato là
dove non ero mai stato.
Nulla, da come non fu, è mutato.
Sul tavolo (sull’incerato
a quadretti) ammezzato
ho ritrovato il bicchiere
mai riempito. Tutto
è ancora rimasto quale
mai l’avevo lasciato.
Decontestualizzando e defunzionalizzando il simbolo e la sua storia, l’artista crea dunque un’immagine residua: alla fine del giorno e alla fine del sogno, restano come avanzi o come fantasmi i ricordi, le vite degli altri, il tempo lungo di gesti reiterati, sempre uguali. E da questi residui l’artista compone un sistema simbolico immediato ed essenziale, ma complesso: il pane che nessuno ha consumato è la terra e il suo grano, è morte, fede, superstizione, nutrimento e fame, è il susseguirsi delle stagione, è la semina, ai primordi della cultura e della τέχνη, nel senso più profondo della mano che produce e mette in opera quanto appreso dall’esperienza del mondo. È questo che sognavi da bambino, Fabrice? Anche questo, e tanto basta.
__________________________
Fabrice Bernasconi Borzì, (Ginevra, 1989), vive e lavora a Catania. Nel 2016 si laurea in Arti Visive - (de)costruzione e gestione dello spazio alla Haute École d’Art et de Desgin de Genève. Dal 2018 si trasferisce a Catania, dove consegue il diploma di II livello presso l’Accademia di Belle Arti. Tra le mostre più recenti: Biennale dei giovani artisti italiani under 35, Monza (upcoming, 2023); Abbandonarsi ogni tanto è utile, Galleria Massimo Ligreggi, Catania; 2022, Oh, i am just visiting, BOCS - Box of Contemporary Space, Catania; 2021, Impro#1, Galleria Massimo Ligreggi, Catania, 2021; Sine die, Fondazione Oelle/Palazzo della cultura, Catania; 2019, Geografico #Sicilia, a cura di Pietro Fortuna nell’ambito del progetto Border Crossing ideato da Bridge Art, Dimora Oz e Casa Sponge, Palermo, varie sedi, 2019; AD IN VISIBILIA, Fondazione Brodbeck, Catania,; 2018, Garden of the forking paths, MANIFESTA 12, Palermo, 2018 5x5x5 collateral event, Palermo, 2018. È tra i finalisti dell’Exibart Prize 2021; nel 2019 vince il Premio Nazionale delle Arti per la sezione opere interattive.
http://fabricebernasconiborzi.com
ENG:
A basket slowly descends from the balcony of a house in response to the shout of a man or woman from below: "Cala u panaru!" (“drop the basket off). Down comes and up goes the warm bread like a little miracle kept safe in a wicker basket. Once there’s no bread left, everyone disappears, no hubbub from the houses’courtyards, no clattering of pots and drawers from the kitchens. Only silence remains, and some crumbs in the basket swaying for an airflow or a breeze from who knows where – moderate winds from the northwestern quadrants, the Mistral, the Sirocco. Is this what you dreamed of as a child, Fabrice?
The image of the typical Sicilian panaru, crystallized by the artist in this second part of a wider project devoted to recovering his Italian roots, is a nostalgic postcard of a journey back from Geneva to Catania. The basket filled with bread and hanging in space evokes habits, rituals and necessities wich are still present in Southern Italian and Mediterranean communities, weather as ordinary costumes or as tourist souvenirs. Through the branches and fibers of a handmade basket, Fabrice Bernasconi traces the history of a traditional and ancient craft such as that of the basketry and, with a few other elements - the bread produced in his homeland, a light breeze – he evokes a clear geographic and anthropological dimension, he roots it out and then takes it with him. The result is ironic and poetic at once: like if he was holding on to hazy memories of a dream, the artist creates a synthetic vision that could retrace and reenact the experience lived. So, here those winds shaking baskets and washing lines, blow from a simple fan. In this necessary dialogue between technology and craftsmanship, the elements of the work screech, speaking two different languages. By recalling a folkloric object and the symbols of a local culture, the work defiantly questions certain logics of gaze and its fascination for an “elsewhere”. One comes back to his native place after years, and rediscover it by experiencing the day-to-day life, objects and gestures which had been forgotten. One travels to places unknow before with a hunger to grasp its deepest truth, those things that only everyday life can reveal, fascinated by a foreign sense of sacredness. Thus, the purely contemplative dimension of the work generates a feeling of displacement that could find no better correspondence than these verses of Italian poet Giorgio Caproni, here translated (from The wall of the Earth, 1975):
I have returned there
where I had never been.
Nothing has changed from what it wasn't.
On the table (on the checkered
waxed tablecloth) on the mezzanine
I once again found the glass
never filled. Everything
has stayed as
I had never left it.
By decontextualizing and defunctionalizing the symbol and its history, the artist therefore creates a residual image: at the end of the day and the end of the dream, memories stay like leftovers or ghosts, together with the lives of other and the slow time of repeated gestures that never change. And with these leftovers the artist arranges an immediate and essential, yet articulate, symbolic system: the bread that no one has taken is the earth and its grain, it is death, faith, superstition, nourishment and hunger, it is the succession of seasons, it is sowing at the beginnings of culture and τέχνη, its deepest meaning of the hand that produces and puts into practice what can be learnt from the world. Is this what you dreamed of as a child, Fabrice? There’s that too, and that’s enough.
_________________________
______________
Fabrice Bernasconi Borzì, (b. 1989, Geneva), lives and works in Catania, Sicily. In 2016 he received his BA in Visual Art - Deconstruction of Space from Haute École d’Art et de Desgin de Genève. In 2018 moved to Catania, where he graduated at the Academy of Fine Arts. Most recent exhibitions include: Biennale dei giovani artisti italiani under 35, Monza (upcoming, 2023); Abbandonarsi ogni tanto è utile, Massimo Ligreggi Gallery, Catania; 2022, Oh, i am just visiting, BOCS - Box of Contemporary Space, Catania; 2021, Impro#1, Massimo Ligreggi Gallery, Catania, 2021; Sine die, Fondazione Oelle/Palazzo della cultura, Catania; 2019, Geografico #Sicilia, curated by Pietro Fortuna for Border Crossing, at Bridge Art, Dimora Oz and Casa Sponge, Palermo, 2019 ; AD IN VISIBILIA, Fondazione Brodbeck, Catania; 2018, Garden of the forking paths, MANIFESTA 12 Palermo, 2018; 5x5x5 collateral event, Palermo 2018. In 2021 he was shortlisted for the Exibart Prize 2021; In 2019 he won the Premio Nazionale delle Arti for the section interactive works.
http://fabricebernasconiborzi.com