Di Vinci e il Mediterraneo nascosto
Di origini siciliane e crescita ligure, Lino Di Vinci non sembra mostrare quelle caratteristiche spiccatamente “mediterranee” che con facilità ci si potrebbe attendere. La sua poetica espressiva si presenta complessa, immersa in un microverso quasi fantascientifico di astrazioni più fredde che calde, anche quando intinte in toni rossastri.
In teoria, come pittore Lino Di Vinci (1962) preferirebbe in genere le limpide essenzialità del bianconero, cui si mostra “cromofobicamente” affezionato; ma il suo operare, che a volte lo porta volentieri ad applicare l’arte su coinvolgenti committenze di design e di monumentali arredi d’interni, in vari cicli ha avuto modo di esplorare misurate policromie e soprattutto svariate tendenze monocrome, eleganti. Lavorando via via su carta, tela, legno, pvc, plexiglas, in realtà Di Vinci parte ogni volta da leggeri segni graffiati, di norma in chiaro su fondi più scuri, per dare vita a visioni di un fluido inframondo brulicante di forme di vita elementari ma non banali, immerse in misteriose attività danzanti. E, per via dei ritmi e dei rimandi interni alle rispettive composizioni figurative, è leggibile in tutto ciò una chiara sottotraccia musicale, forse minimalista, forse psichedelica.
Ora, il lato “sexy” di tali tranci di panorami visionari sta nel fatto che spesso trasmettono la sensazione di assistere ad attività primarie di fecondazione cellulare. Le forme che si inseguono, ora discretamente falliche, ora simil-vagine e simil-uteri, ora bulbose protuberanze mammellari non sprovviste di probabili capezzoli, ora comunque attori di sensibili tensioni di vicendevoli attrattive, tutto concorre a suggerire in chi guarda un’eccitazione protocellulare che si fa precisa interprete microcosmica di più macrocosmiche frenesie a noi umani meglio note. Lo spettacolo, insomma, è una sorta di grado zero della fregola sessuale, raggelato dalla lontananza miniscopica ma in un certo senso anche esaltato dalla sua indefinibilità spazio-temporale: un amplesso dell’universo con se stesso, in se stesso.
C’è molta mistica orientale, nelle opere di Lino Di Vinci. Difatti certe propensioni all’ordine, leggibili in filigrana oltre il caos apparente dei diversi vorticismi sufi in atto simultaneo, richiamano bilateralità primordiali e simmetrie da mandala. E non stupisce pertanto che in tale fantauniverso biologico, in fondo così definito nella propria libera indefinitezza, di tanto in tanto appaiano a sorpresa figure riconoscibili. Piccoli embrioni urlanti, cuori che palpitano, canali risucchianti, simboli graffiti primitivi; o addirittura una trionfante Lei (confidenzialmente You, per l’artista), luminosa Ishtar in autoreggenti e zeppe a spillo, spalancata signora dei serpenti e stella di fertilità.
Ferruccio Giromini
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati