Alda Fendi: così sarà il mio museo
Una mattina a Roma, con Alda Fendi. Una visita negli spazi della sua Fondazione e una lunga conversazione per farsi raccontare chi è lei, la minore delle sorelle della moda italiana, che anni fa decisero di vendere delle quote a LVMH. E tutto cambiò. Per Alda fu il tempo dell’arte e dell’impegno culturale. Accantonato il mercato, indossò i panni della mecenate, credendoci davvero. Oggi tutte le energie sono per un progetto nuovo. Un museo nel cuore della sua amata Roma.
Una luce tutta speciale, quella di Alda Fendi. Sensibilità mista a candore. Poi, d’un colpo, spunta fuori un certo piglio sicuro, da capitana. Mentre parliamo resta nascosta dietro gli enormi occhiali scuri. Cerca le parole con lentezza e si emoziona quando inciampa su alcuni temi: Roma, la sua città, fonte d’ispirazione; l’arte, la sua passione, sfida arrivata tardi ma accolta con convinzione; e poi l’impegno sociale, la crisi politico-economica e culturale, la necessità di operare seminando il verbo del bene e del bello, per migliorare le cose. Il suo pallino più grande. Esperimenti di una mecenate contemporanea, convinta di fare – a suo modo – la rivoluzione. E l’ha chiamata proprio così, la sua fondazione: Alda Fendi Esperimenti.
La intervistiamo in un salottino, stretto e luminoso, nel quartier generale della fondazione, la sede di rappresentanza. Ti affacci dall’unica finestra nella stanza, provvista di strategici binocoli, e davanti agli occhi si srotola lo spettacolo accecante dei Fori Imperiali. Basti pensare che lo spazio, in sostanza, altro non è che una torretta laterale della Chiesa dei Santi Luca e Martina, gioiello di architettura barocca in cui sono sepolti Pietro da Cortona e gli artisti dell’Accademia di San Luca.
Ed è tutto un po’ incredibile e insieme normale, qui. Come quando, durante i lavori per ristrutturare la seconda sede – quella che chiamano il “Silos” e che ospita installazioni ed eventi artistici – vennero fuori dei reperti interessanti. Subito interpellata la Soprintendenza, viene appurata l’esistenza di un patrimonio prezioso: sotto quella che era l’ex bottega di un tipografo c’era niente poco di meno che la Basilica Ulpia, con gli unici frammenti di marmi colorati mai rinvenuti. Alda Fendi si è presa carico degli scavi, avviando un cantiere e coprendo tutte le spese. Oggi, nei sotterranei, c’è un piccolo museo, realizzato in soli tre anni con le proprie forze. Visite su prenotazione, a cura della Fondazione.
Fu nel 2001 che Alda Fendi, la più giovane delle note sorelle del fashion, vendette la sua quota della maison di famiglia, scegliendo di investire tutto nell’arte. Al richiamo della moda, con la sua seducente leggerezza, tutta orientata al mercato, si sostituisce quello per il bello spirituale e la ricerca estetica, senza compromessi. Alda progetta 120 anni di attività, con oltre un secolo di risorse disponibili, per cinque generazioni a venire. Le figlie, Alessia e Giovanna, sono al suo fianco. Da allora, sotto la guida dell’art director Gabriele Curi, la fondazione produce spettacoli in cui si fondono teatro, installazione, arti visive, musica.
E in questa sua “missione”, ispirata e caparbia, un traguardo importante sta per essere raggiunto. Forse il più importante. Fra due anni Roma avrà un nuovo museo, un centro per le arti contemporanee, polivalente, sperimentale: più una cittadella della creatività che uno spazio museale in senso stretto. A volerlo è stata lei, Alda, e a disegnarlo sarà Jean Nouvel, come annunciato nei mesi scorsi. “Abbiamo deciso di dare una scossa alla città, che è troppo standardizzata: partendo dai due concetti base di cultura e di democrazia, abbiamo immaginato qualcosa di assolutamente nuovo”, ci racconta. Uno spazio di che tipo? “5.000 mq – sei piani più una terrazza – dentro il Foro Boario, quindi ancora nella Roma Imperiale. Una posizione magica, di fronte all’Arco di Giano e subito dietro confinante con via di San Teodoro e il Palatino; un posto in cui accadrà di tutto, globalizzato, aperto all’arte, ma anche all’artigianato di qualità e alla ricerca dei Paesi emergenti. Sarà aperto giorno e notte, per tutti”.
Una specie di quartiere, con un via vai continuo: “All’interno, a qualsiasi ora”, prosegue, “potrai trovarci il grande critico d’arte così come il ragazzo giovanissimo che è lì per uno stage. Sarà un faro dentro Roma, sempre acceso, in un punto che al momento è buio e abbandonato, ma che noi faremo diventare un’attrazione internazionale”. Un posto diverso da tutti gli altri, assicura. Fuori dagli schemi tradizionali dell’edificio-museo. Niente collezioni, intanto. Il Fendi Museum sarà più che altro un centro di produzione, con eventi, atelier e residenze. “Al piano terra abbiamo immaginato le gallerie per le grandi mostre, ma anche botteghe e laboratori per le arti applicate e uno spazio per la fondazione. Ai piani superiori saranno progettati 26 appartamenti in cui ospitare artisti o da affittare a chi vorrà vivere in un luogo in cui, per arrivare a casa, dovrai passare attraverso delle opere d’arte. Previsti anche ambienti di varie dimensioni per accogliere studi d’artista e sale prove per le compagnie. Spazi con pareti flessibili, che potranno tramutarsi in sale teatrali dove allestire spettacoli”.
Anche l’arredamento avrà un tocco speciale, visto che a progettarlo saranno degli artisti, invitati a disegnare, durante un periodo di residenza, complementi e dettagli.
Costi molto alti, chiaramente, ma senza barocchismi, eccessi d’enfasi ed effetti magniloquenti. Il tutto sarà spartano, rigoroso, semplice, con l’unica finalità di far risaltare l’identità di uno spazio che è nobilitato, fortemente, dalla straordinaria collocazione nel cuore antico dell’Urbe: “Nouvel è un architetto che ha un grande rispetto dei luoghi; con molta poesia e con intelligenza ha pensato a interventi forti ma che non alterino le caratteristiche originarie del posto”.
Il palazzo, abbandonato molto tempo fa, era stato a un certo punto acquisito del Comune e poi dato a 32 famiglie che da vent’anni lo occupavano, vivendo in condizioni disagiate. Racconta Alda, con un moto di rabbia e tristezza: “Ci abbiamo messo due anni a risolvere questa situazione. Il Comune li aveva lasciati in uno stato di degrado totale, erano accampati, senza alcun tipo di contratto, c’erano tende e appartamenti stracolmi. Tutta gente che aveva diritto a un alloggio decoroso e che noi abbiamo ricollocato, trattando con ognuno di loro e procurandogli degli spazi più adatti alle loro esigenze”. Lo spirito solidale e la vocazione per l’impegno sociale fanno capolino. “Siamo molto arrabbiati con il Comune di Roma”, aggiunge, ”e abbiamo una causa in corso. Il palazzo non dovevano tenerlo in queste condizioni. L’amministrazione ha delle responsabilità rispetto a un luogo come questo: non è un bene storico-artistico in sé, ma è importante per il luogo in cui si trova”.
Ed ecco la stoccata finale. “Ben vengano a questo punto i privati che risolvono questi casi. Privati che però diminuiscono sempre più. Privati che spesso hanno fondazioni senza scopo di lucro, senza un ritorno commerciale e senza un’azienda alle spalle: mecenatismo puro. Fondazioni che peraltro pagano un’Iva pari al 21%, non facilitate fiscalmente. Ecco perché i privati sono sempre di meno”. Parola di una mecenate vecchio stampo. Dura e pura. E senza alcuna voglia di mollare. La sua battaglia, lei, l’ha iniziata e non si ferma più.
Helga Marsala
www.fondazionealdafendi-esperimenti.it
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