Minimalista e romantica. L’arte di Raphaela Simon in mostra a Roma
Grandi dipinti e una serie di sculture leggere compongono la mostra dell’artista tedesca negli spazi della Fondazione Giuliani
Ci sono tante teste umane in questa personale di Raphaela Simon (Villingen, 1986; vive a Berlino). Sia raffigurate, in grandi dipinti, che presenti tridimensionalmente, in forma di sculture leggere. Le più interessanti sono queste ultime, collocate a terra, in tessuto. Sono bizzarre e ammalianti – c’entra poco il rotolare cui la Storia le sottopone ogni tanto. Le anima una certa ambivalenza: un po’ sono strani cuscini finiti sul pavimento, un po’ assomigliano alle statue dell’Isola di Pasqua e dunque ispirano rispetto. A funzionare è il loro apparire impacchettate in sé stesse.
Il resto della mostra si compone di grandi quadri, molti dei quali attraversati da un’atmosfera più poetica e scura, in linea con il titolo scelto per la mostra, che è Blaue nacht. Il riferimento si direbbe al Cavaliere azzurro, storico movimento artistico di inizio Novecento, precedente illustre di un audace connubio, quello tra modernismo e romanticismo, tornato in auge oggi.
Il lavoro di Simon sembra volgersi in questa direzione, ed è proprio di una torsione in senso romantico della sua produzione che dà conto questa mostra.
LA MOSTRA DI RAPHAELA SIMON A ROMA
Ma, detto ciò, la sensazione è che la figura umana e un lirismo per così dire notturno non si addicano all’attitudine minimalista e pop dell’artista. O almeno, che la transizione verso questa dimensione così differente non sia stata portata a compimento. Così, si finisce in territori vagamente simbolisti in cui non si avvertono pulsazioni particolari. Né nel senso del mitico-magico, né rispetto a una sorta di gigantismo modernista del figurale. I busti archetipici appaiono più legnosi che icastici, mentre le teste umane scarne e schematizzate risultano soltanto gravi. In altre parole, gli esiti sono elementari senza essere numinosi, enigmatici ma non intriganti.
Va meglio nel resto dei dipinti, in cui la figura umana è del tutto assente, o al più solo evocata. In questi lavori la realtà è sospesa un attimo prima di trasferirsi nella sfera dell’aniconico – un po’ à la Tom Wesselman, ma secondo un’attitudine intimista ed “europea” più riconducibile a un Domenico Gnoli. Gli esiti sono meno affaticati e insicuri, le immagini più felicemente sfuggenti. Solo che, va detto, a fronte di qualche pezzo vibrante ce ne sono diversi dalla carica semantica troppo debole.
Nel complesso si sta parlando di una mostra tipicamente interlocutoria, fuori fuoco, che pare testimoniare di una fase di passaggio nella produzione dell’artista.
Pericle Guaglianone
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