“Ecco come i parchi Disney hanno influenzato l’architettura”. Parla Saskia van Stein
“Mi piacerebbe che si iniziasse a progettare con il metaverso”. Con la curatrice della mostra che indaga l’urbanistica dei parchi Disney parliamo ancora una volta di architettura ludica
Direttrice della Biennale Internazionale di Architettura di Rotterdam, Saskia van Stein (Sittard, 1978) è una curatrice indipendente che si occupa di design e architettura; il suo campo d’interesse si concentra sul complesso relazionale dei fenomeni tecnologici, politici, economici, psicologici e culturali e sul modo in cui questi vengono espressi nell’ambiente progettato. Dal 2019 è preside del Master intitolato The Critical Inquiry Lab della Design Academy di Eindhoven; è stata direttrice del Bureau Europa, piattaforma per l’architettura e il design. Tra i suoi progetti più recenti rientra la mostra The Architecture of Staged Realities (Re)constructing Disney, dedicata alle influenze del mondo Disney sulla società e la cultura contemporanee: dopo il debutto allo Het Nieuwe Instituut di Rotterdam, prossimamente arriverà a Bordeaux, presso Arc en rêve Centre d’Architecture. Proprio la ricerca associata alla rassegna costituisce il punto d’avvio di questa intervista.
INTERVISTA A SASKIA VAN STEIN
Ha svolto un’importante ricerca sulle architetture e l’urbanistica dei parchi Disney. In che modo la filosofia e i concetti di questi parchi hanno influenzato l’organizzazione delle nostre città?
Molto si deve allo storytelling, una pratica immateriale che spesso è assente nei progetti di architettura e di urbanistica e che invece era un elemento centrale nella visione di Walt Disney. L’influenza sul design, l’innovazione di pensiero e la tecnologia vennero prima portate da Disney sullo schermo, poi nei parchi a tema e quindi fuori dai parchi stessi.
È interessante capire come questi mondi siano confluiti uno nell’altro e vedere quali siano state le suggestioni che ne hanno determinato lo sviluppo.
Walt Disney trasse spunto dalle sue esperienze per farlo?
Durante la Prima Guerra Mondiale, Disney viaggiò in Europa ed ebbe occasione di ammirare varie architetture in Francia e in Germania. Quelle influenze iconografiche, sia in termini di storytelling che di riferimenti culturali, lo intrigarono molto e così tornò a casa ricco di idee. Nel 1921, a vent’anni, realizzò dei brevi cortometraggi animati, i Laugh-O-Grams, dove la narrazione della città aveva un ruolo significativo: fin da allora Disney aveva in mente l’idea dei parchi a tema, che vedeva come una combinazione delle architetture storiche che aveva ammirato in Europa, dai Giardini di Tivoli a Copenaghen. Cercò di creare una narrazione per la middle-class degli Stati Uniti, che era composta soprattutto da gente proveniente dal Vecchio Continente. Concepì dei parchi a tema, non dei parchi divertimento tipo Coney Island, che reputava volgari. Era influenzato dall’idea delle città giardino, ma anche dal lavoro dell’architetto austriaco Victor Gruen, il “padre del mall”, che pose le basi dei primi centri commerciali moderni.
E poi come condusse tutto questo oltre la dimensione dei parchi?
Negli Anni Sessanta Disney capì che ciò che valeva nei parchi poteva funzionare anche al di fuori. Così iniziò a fare ragionamenti sull’urbanistica, alla base di progetti realizzati come EPCOT, una città del futuro incentrata su un’idea di comunità del domani. Qui introdusse tutta una serie di accorgimenti su vari aspetti cruciali, dalla mobilità alle prospettive urbane. Un altro aspetto importante è la mediazione: televisione, riviste, merchandising giocano un ruolo importante nell’idea di Walt Disney per i parchi a tema. In un programma tv della ABC raccontava i suoi parchi, in modo che la gente si sentisse a casa quando li visitava.
I parchi a tema sono mondi chiusi, organismi isolati…
Hanno vari punti di contatto con il mall: sono entrambi espressioni di uno spazio chiuso e controllato. Ancora oggi gli elementi forti dei parchi a tema Disney sono il controllo della folla e luoghi progettati con estrema cura, dove la televisione a circuito chiuso gioca un ruolo importante.
L’ARCHITETTURA SECONDO WALT DISNEY
Ci sono alcuni esempi nel mondo in cui l’influenza della filosofia Disney è più evidente?
In Cina, per esempio, ci sono città con un’atmosfera parigina. Poi ci sono architetture iconiche come la Tour Eiffel, ripetute in vari luoghi per diventare semplici simboli visivi.
Walt Disney introdusse il concetto di nostalgia e allo stesso tempo progettò un mondo totalmente nuovo. Tutto ciò si è poi tradotto in questioni di Post-Modernismo da un lato e di Neo-Tradizionalismo dall’altro. Questo secondo aspetto è molto importante anche oggi, in un momento in cui si costruiscono architetture in cui la gente si possa riconoscere.
Per i suoi parchi, Disney creò una nuova visione dell’architettura. Ma a quali esempi si rivolse quando li concepì?
Disney andò in Europa tre volte per documentarsi e trovare ispirazioni per i suoi parchi. Studiò le architetture, ma anche i paesaggi. Per esempio in Svizzera rimase impressionato dal Matterhorn: pensò a questa montagna quando ideò gli scenari per gli ottovolanti. Cercava di individuare il modello secondo cui era costruita la realtà. Memorizzava elementi ludici visti nelle stoffe e negli arazzi, nel graphic design, nei dipinti e li riproponeva nei suoi parchi. È un continuo gioco di rimandi, come dal castello di Fontainebleau a quello di Cenerentola. Anche il lavoro di Viollet-le-Duc per i restauri della cattedrale di Notre-Dame è stato un’importante fonte di ispirazione.
Qual è stata la sua relazione con il gioco?
Capì che nei suoi film l’elemento ludico non doveva essere preponderante, non doveva occupare tutta la storia, era meglio creare degli intermezzi con momenti giocosi. Lo stesso vale quando si passa all’architettura: spesso si tratta di spostare un elemento da un contesto all’altro, per renderlo spiazzante. Se c’è un’idea di gioco, deve essere un gioco orchestrato. Non a caso, Disney tenne separato l’aspetto ludico dal momento del lavoro: basta osservare le foto degli studi Disney di Burbank, progettati nel 1941 dall’industrial designer tedesco Karl Emanuel Martin (KEM) Weber, che creò ambienti in stile Bauhaus.
ARCHITETTURA LUDICA, POSTMODERNO E METAVERSO
Il concetto di architettura ludica nasce nel XX secolo o possiamo trovare qualche esempio anche nel passato? Le architetture ideali di Boullée e Ledoux, il Royal Pavilion di Brighton, il castello di Neuschwanstein sono, in un certo senso, architetture giocose?
Lo sono sicuramente. Neuschwanstein è un’opera d’arte totale: sono molti castelli in un solo castello, è ludico perché è come un collage di diversi elementi. Allo stesso modo, Boullée concepì dei mondi a parte. L’elemento del gioco è importante perché fa da legante, tiene insieme elementi diversi tra loro.
Fino al XIX secolo si costruivano architetture pensate anche per essere visitate, non solo destinate ad abitazione. Oggi continuiamo a visitare antichi castelli e palazzi, ma raramente visitiamo nuove architetture. Forse oggi manca un pizzico di divertente inutilità?
Forse oggi manca una narrazione. Nei progetti di Disney la narrazione è molto presente, e anche l’architettura cui fanno riferimento comprende quella stessa idea. Quello stimolo si ritrova anche nelle architetture di Rossi, Tschumi, Venturi e Scott Brown: c’è l’idea che l’architettura possa comunicare, far sorridere, essere visivamente attraente.
Il postmoderno è stato l’ultimo movimento architettonico che ha permesso di creare architetture divertenti e giocose. E poi?
In Olanda c’è stato il fenomeno architettonico Superdutch, che in certi casi è stato divertente e attraente. Poi, in generale, nell’architettura contemporanea si è vista molta ripetizione e perdita della qualità. Oggi tutto l’aspetto narrativo è quasi assente nell’architettura.
Perché l’architettura deve essere necessariamente seria?
Credo che l’architettura in Europa rifletta molto un’idea illuminista, e questo significa categorizzazione. Non siamo più usciti da quella visione, non siamo mai stati veramente moderni. Nella tradizione dell’architetto c’è l’idea dell’homo universalis, dell’anima accademica illuminata, ma la razionalità spesso è stata valutata molto più dell’atteggiamento ludico e dell’intuizione.
Si parla molto del metaverso. Qual è il potenziale dei mondi virtuali e delle nuove tecnologie per fare esperimenti e ricerche di architettura e urbanistica?
Penso che non si siano ancora sfruttate tutte le potenzialità. Si usano soprattutto come strumenti per il rendering, ma credo che in prospettiva ci sarà un’evoluzione, se non un vero e proprio rinascimento. In quei mondi possiamo muoverci tra le architetture, esperirle, viverle. Mi piacerebbe che si iniziasse a progettare con il metaverso.
Mario Gerosa
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati