Arte pubblica e memoria collettiva. Una riflessione sull’approccio dell’Italia
Una chiamata ad artisti, intellettuali, società civile, committenti perché anche l’Italia inizi a celebrare figure e fatti esemplari intorno a cui edificare un senso di comunità democratica
Siamo fatti della sostanza dei sogni, sosteneva un poeta Ma la memoria pure è materia da tenere in conto, al punto da far pensare che la nostra stoffa, e più ampiamente quella di una società, siano una combinazione dei due elementi. Una visita a Washington, andata e ritorno da Roma, ha offerto l’occasione per qualche riflessione in proposito, divagando per memoriali: luoghi, questi, in cui ricordo e immaginazione s’attivano in un percorso agibile, dove la statica dei vecchi monumenti scultorei viene superata, per riprendere il titolo di un importante saggio di Rosalind Krauss, dalla loro disposizione in un “campo allargato”, quando una dimensione di arte pubblica partecipata, perlomeno nei suoi risultati migliori, riesce ad accordare tempi diversi, tra loro anche possibilmente in conflitto, ma pur sempre in una prospettiva dinamica, costruttiva.
I MEMORIALI DI WASHINGTON. A PASSEGGIO PER IL NATIONAL MALL
La capitale americana è città dalle dichiarate ambizioni imperiali, che, di pari passo con le conquiste del secolo scorso, ha dovuto trovare il modo di mostrare al mondo in maniera convincente. La cultura, per operazioni del genere, torna sempre buona, come conferma una passeggiata lungo il National Mall, dal Lincoln Memorial fino al Campidoglio, circondati dalla straordinaria parata dei musei smithsoniani. Ma il cammino comincia, appunto, da una costruzione edificata per ricordare e ispirare: inaugurato nel 1922 nelle forme austere di un tempio antico, il Lincoln Memorial celebra l’uomo che, nato poverissimo, si formò da autodidatta, guidò gli Stati Uniti nel corso della guerra civile che li stava dividendo, decretò l’abolizione della schiavitù. Salita la ripida scalinata in marmo bianco, al cospetto dell’imponente statua del presidente, circondati da sue attente citazioni, viene naturale ritrovarsi in una sorta di raccoglimento insieme agli altri visitatori, al di là di nazioni e appartenenze.
Giusto a poche centinaia di metri di distanza si trova un altro memoriale, di natura completamente diversa per intenti, disegno, impressioni: quello dedicato ai veterani della guerra del Vietnam. La componente principale, inaugurata nel 1982, è una lapide di granito nero lunga oltre centocinquanta metri, su cui sono riportati i nomi dei quasi sessantamila caduti americani in una guerra che, visti svolgimento e conclusioni, negli USA era ben difficile da celebrare. Il progetto di Maya Ying Lin (Athens, Ohio, 1959), al tempo ancora una studentessa universitaria, s’impose nel concorso pubblico bandito per il memoriale proprio per la sua capacità di disinnescare ogni possibile lettura retorica o politica, accompagnando silenziosamente il visitatore. In effetti, secondo il commento del veterano che diede il via alla raccolta di fondi indipendente per la sua realizzazione, l’opera “dice sul Vietnam esattamente ciò che si voleva dire, cioè nulla” (cfr. A.T. Tota, Sociologie dell’arte, Carocci 2003, p. 87).
Sempre dalle parti del National Mall si susseguono vari altri spazi suggestivi dedicati alla memoria: mi colpisce, in particolare il riflessivo pontile dedicato ai firmatari della Dichiarazione d’Indipendenza, inaugurato nel 1984, dove cinquantasei pietre ricordano ciascuno degli uomini, dalle estrazioni sociali più diverse, che definirono come un popolo sparso, alle prime armi e arti, dovesse levarsi contro il più grande impero al tempo esistente per rivendicare i propri diritti.
I MEMORIALI DI ROOSEVELT E MARTIN LUTHER KING
Poco oltre, sulle rive del fiume Potomac, si trovano poi i due memoriali di più recente costruzione. Alla domanda di un amico su quale monumento avrebbe mai voluto per sé, Franklin Delano Roosevelt rispose che gli sarebbe piaciuto un semplice blocco di marmo delle dimensioni della sua scrivania di lavoro, disposto davanti all’Archivio di Stato: e basta. Nel 1965 il desiderio venne accontentato, ma dal 1997 c’è pure un ben più esteso, coinvolgente memoriale.
Disposta su oltre tre ettari tra alberi da frutto e ciliegi giapponesi, una successione di costruzioni in pietra e di sculture – tra cui la potente Depression Bread Line di George Segal (New York, 1924 – 2000) – porta i visitatori a ripercorrere i dodici terribili anni in cui si svolsero i tre mandati di FDR, dalla Grande Depressione alla fine della seconda guerra mondiale, passando per il New Deal. Il progetto complessivo, di Lawrence Halprin (New York, 1916 – Kentfield, 2009), delinea uno spazio idealmente democratico, infonde una sensazione di solida quiete. Basta spostarsi di poco, tuttavia, e l’atmosfera si fa ben diversa.
Mentre nel caso di Roosevelt la scelta è stata per una sorta di presenza dinamica e diffusa, nell’area riservata dal 2011 alla memoria di Martin Luther King tutto ruota intorno a una statua in granito gigantesca e corrucciata, sullo sfondo di una minacciosa montagna spaccata. Il contestato stile realista-socialista impiegato dallo scultore cinese Lei Yixin (Changsha, 1954), lo stravolgimento di una citazione riportata sulla statua, miserevoli richieste da parte della famiglia King di diritti d’immagine: le cose qui sono andate assai meno lisce di quanto si sarebbe auspicato per celebrare limpidamente il grande eroe americano dei diritti civili. Pure, un’occasione si è comunque così definita per misurarsi con la memoria di un uomo e del suo tempo, e per continuare a farlo. Va bene, gli Stati Uniti sono un paese diviso lacerato da violenze, discriminazioni, ingiustizie, ma a osservare la Stone of Hope, come è stata chiamata la statua di King, e le centinaia di persone di etnie e categorie sociali diverse che le si muovono intorno in questa domenica di primavera, quello che si prova nonostante tutto è un senso di speranza in quanto potrà essere.
MEMORIA E ARTE PUBBLICA IN ITALIA
Torno in Italia giusto in tempo per assistere a una serie di celebrazioni civili – il 25 aprile, il primo maggio, il 2 giugno – intorno a cui si levano le usuali voci e narrazioni contrastanti, destinate a confondersi in un rumore sociale di fondo dagli esiti inconcludenti. Oppresso da questa sensazione già troppe volte vissuta di mancata costruzione di una dimensione – non nazionalista, s’intenda, ma – nazionale condivisa nei suoi fondamenti, considero stancamente quanto la storia italiana repubblicana sia rimasta frammentaria, incompiuta.
La battuta di Winston Churchill annotata nel 1945 da un alto prelato, “l’unica cosa che mancherà all’Italia sarà una compiuta libertà politica”, rende conto dei condizionamenti esterni che, in modo inequivocabile nel corso della Prima Repubblica, hanno pesato su una simile depressione o impotenza collettiva, ma non posso fare a meno di considerare come, perlomeno dal 1993 in avanti con l’avvio della Seconda, un discorso pubblico che nel nostro Paese avrebbe potuto svolgersi con maggior libertà o almeno fantasia abbia fallito per responsabilità di tanti, compresi artisti e intellettuali: di questi è obiettivamente mancata, infatti, una spinta propositiva a definire e costruire una sfera di condivisibile fiducia attraverso forme legittimamente negoziate – perché non può essere altrimenti, in un contesto che si percepisca democratico – con la politica e più ancora la società nel suo complesso.
Sullo slancio dei passi per la capitale americana, osservo, ancora, come in Italia, dal dopoguerra in avanti, non abbiamo saputo coltivare spirito e materia della memoria collettiva, se non quando si sia trattato di vittime, perlopiù inconsapevoli, in buona parte dovute ai condizionamenti di cui si diceva poco fa e rimasti oscuri. Non d’ispirare sogni si è trattato, insomma, ma di commemorare incubi irrisolti.
I MEMORIALI PER LE STRAGI IN ITALIA
Di fatto, i pochi memoriali di portata nazionale edificati nel corso della storia repubblicana riguardano stragi: c’è l’intenso monumento-tumulo dedicato all’eccidio delle Fosse Ardeatine a Roma, la sottile installazione nella stazione di Bologna a segnare il tempo interrotto dalla bomba, sempre a Bologna il grande magnete a ricordo della Shoah e il boltanskiano museo-memoriale per la strage aerea di Ustica, vicino a Palermo la stele rugginosa per la strage di Capaci; giusto pochi giorni fa, con raro tempismo rispetto alle presenti riflessioni, è stata annunciata la prossima realizzazione a Milano di un’installazione che commemori, tutte insieme, le otto principali stragi riconducibili alla strategia della tensione tra il 1969 e il 1980.
Mi si dirà che, in alcuni almeno dei casi italiani citati, le morti siano state per una giusta causa, e anche che, degli eroi civili americani richiamati in precedenza, vari sono morti di morte violenta. E sia: mi pare però tipico dei memoriali italiani commemorare il delitto più che celebrare l’esempio, così infondendo non tanto speranza quanto sconforto, rabbia al più. Per intendersi, di Giovanni Falcone l’enorme cippo sul luogo dell’attentato ricorda la morte, insieme a quella delle altre quattro vittime della strage, non la vita. Un paio di secoli fa Ugo Foscolo, si diede a passeggiare tra urne e cipressi per ragionare del potere esemplare di chi sia stato (“a egregie cose il forte animo accendono”, eccetera): passa il tempo, le questioni restano le stesse, ma le capacità memoriali degli italiani paiono aver segnato il passo.
COME L’ARTE PUÒ CELEBRARE LA MEMORIA NAZIONALE SENZA RETORICA
Non ci vuole particolare ingegno per comprendere che, dopo gli spropositi retorico-fascisti su eroi santi e trasvolatori vari, celebrare una memoria nazionale in Italia sia divenuta impresa delicata, ma da qui a evitare, nel corso di quasi ottant’anni ormai dall’avvio dell’impresa repubblicana, l’omaggio a figure esemplari intorno a cui edificare un senso di comunità democratica, di spazio bianco ne rimane. Ecco, è il caso di cominciare a re-immaginarlo, questo spazio, con intelligenza e sensibilità contemporanee, e se la storia contemporanea nazionale per varie ragioni non ha saputo o potuto esprimere eroi civili in grado di guidare in maniera trascinante un cammino autenticamente collettivo, non sono però mancate figure di riferimento in altri ambiti. Artisti, intellettuali, società civile, committenti: avanti dunque, proviamo a ragionare insieme su che fare.
Personalmente, per quanto valga, mi chiedo ad esempio come sia possibile che ad oggi, in Italia, non abbiamo un memoriale dedicato a Rita Levi Montalcini e con lei al potere salvifico della ricerca scientifica, cosa si aspetti a celebrare attraverso la grammatica dell’arte e dell’architettura la fantasia educativa di un maestro come Gianni Rodari, perché non si possa osare una ripresa non effimera di quel legare insieme le cose operato da Maria Lai in un paese intero mostrando visivamente la trama e l’ordito che tengono insieme la società in un determinato luogo. A proposito di legami, sul modello del memoriale per la dichiarazione d’indipendenza di cui dicevo qualche riga fa, m’immagino così un memoriale dedicato un documento che proprio per la sua natura pattizia compromissoria è comunque riuscito a tenere insieme i pezzi del nostro paese, la Costituzione; quanto al fatto che il ricordo delle vittime sia sempre doveroso, ma talvolta almeno sarebbe bene ricordarle anche per scelte e azioni consapevoli, segnalo infine l’importanza di commemorare le centinaia di morti in servizio di medici e infermieri durante la pandemia.
Non è il nostro, per il cinismo o la stanchezza che vengono dalla storia lunga di cui ci troviamo al capo, un Paese che si presti a quella religione civile che invece, secondo l’ormai classica lezione sociologica di Robert Bellah, tanto ha determinato proprio rispetto all’America da cui sono partite queste divagazioni. Il che non vuol dire non valga tentare d’alzare laicamente, di tanto in tanto almeno, lo sguardo dal vecchio, nazional-tipico, particulare. Continuo a credere che se, nel farlo, s’incontri un efficace segno ispiratore lasciato dall’arte nello spazio e nel tempo, qualche nuovo sogno dalla memoria possa ancora venire fuori.
Luca Arnaudo
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