La critica delle immagini nella video-arte di Eleonora Roaro
Esiste una narrazione oggettiva? Il punto di vista dell’artista che mette in discussione le immagini, gli stereotipi e gli immaginari pop, trovando un’alleata nell’archeologia del cinema
Eleonora Roaro (Varese, 1989) sviluppa le sue ricerche concentrandosi sulle immagini in movimento, con particolare attenzione per il video, le pratiche d’archivio e l’archeologia del cinema. Con alcune sue opere rivisita dispositivi e iconografie del passato per riflettere sul modo in cui la tecnologia influenza la nostra percezione della realtà. Il suo lavoro nell’ambito della video-arte si concentra sui temi della durata, del display e della ripetizione considerata come elemento costitutivo della vita e quale carattere cruciale per i nuovi media. Il suo lavoro è stato esposto in gallerie e musei quali Fabbrica del Vapore (Milano), Casa degli Artisti (Milano), La Triennale (Milano), MACRO (Roma), CAMeC (La Spezia), Museo Diffuso (Torino), E-Werk (Friburgo). Ha lavorato al progetto “VR e AR nella Valorizzazione dei Beni Culturali e Artistici” durante una borsa di studio presso l’Università degli Studi di Udine (2019). Nello stesso anno è stata assegnista di ricerca presso l’Università degli Studi di Udine per il progetto “Augmented reality and virtual reality per la valorizzazione del patrimonio artistico e culturale”. Nel 2020-23 fa parte del progetto vincitore del MISTI Global Seed Fund del MIT Boston e della Regione Friuli-Venezia Giulia dal titolo “Sensing Dolce Vita: An Experiment in VR Storytelling”. Questo dialogo mette in luce alcuni dei temi centrali affrontati da Roaro con le sue opere: il ruolo dei discorsi, la critica alle immagini, l’interesse per il cinema e l’archivio, il rapporto con le possibilità narrative.
INTERVISTA A ELEONORA ROARO
Nonostante le immagini siano presenti nelle tue opere, la tua è soprattutto una riflessione sui discorsi che esse possono originare.
Un riferimento per me sempre importante è la relazione tra microstorie e archivi, ossia la stessa possibilità che i discorsi avrebbero di diventare parte di raccolte che li includeranno e organizzeranno in modi nuovi, sfuggendo così a un primo modo in cui le cose possono essere messe in ordine.
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Il tuo interesse per l’autonomia che possono avere i discorsi è all’origine della tua scelta di mettere in crisi tanto le immagini quanto le stesse possibilità narrative delle tue opere.
Dal punto di vista della formalizzazione dei lavori, fino a ora uno sviluppo di una narrativa lineare e tradizionale – intesa come modo per raccontare le cose – non c’è mai stato. Consideriamo per esempio i miei lavori video, il tempo solitamente lo decide il fruitore: può guardare l’opera per cinque secondi o cinque ore, per me il risultato non cambia. Per esempio, in FIAT 633NM ho lavorato con un corpus di immagini della mia famiglia legato all’esperienza coloniale in Eritrea ed Etiopia durante il fascismo, quindi diverso dagli archivi e dai contesti istituzionali. Ho fatto questo proprio per mettere in dubbio una certa narrazione, un fatto politico, la propaganda che era incorporata in quelle immagini e in chi le aveva realizzate.
Anche se, per la riuscita delle tue opere, alcune possibilità narrative sono comunque riconoscibili.
Certo, sono possibilità disponibili per i fruitori. Tuttavia, neppure nel progetto Odeon VR – Sensing Dolce Vita an Experiment in VR Storytelling, basato sulla ricostruzione in realtà virtuale di un vecchio cinema udinese, lavoravo sulla narrazione. Quest’ultima, se c’era, era più un risultato ottenuto dalla stratificazione di memorie degli spettatori, ma non un racconto o una storia. Si tratta piuttosto di pretesti per poter decostruire un certo soggetto di indagine.
LA CRISI DELLE IMMAGINI E DELLA NARRAZIONE SECONDO ROARO
Questo slittamento della narrazione dal piano oggettivo dell’opera a quello soggettivo della sua fruizione si riconosce anche in 30/07/2017. A essere centrale non è solo il legame che stabilisci con i registi Michelangelo Antonioni e Ingmar Bergman, le figure femminili nei loro immaginari, ma la possibilità stessa di mettere in crisi le narrazioni su di loro e i discorsi che si generano e vanno altrove rispetto alle loro opere e poetiche.
Insieme a Katy Richardson (l’altra performer dell’opera) ci siamo attenute ad alcune pose presenti in alcuni film dei due registi (come ad esempio in Cronache di un amore) per lavorare principalmente sulla presenza dei corpi nelle immagini. La nostra azione era anche spontanea ma, alla fine, profondamente mediata da quell’immaginario al quale ci stavamo riferendo.
A te, però, non interessa tanto mettere a fuoco ciò che c’era prima o che vi sarà poi, bensì ciò che sta nel mezzo. Mettere in discussione le immagini e l’eventuale unidirezionalità dei discorsi sembra essere anche il tuo modo per mostrare la fragilità delle aspettative che spesso si maturano a partire da essi.
Un elemento importante riguarda proprio il mio modo di formulare delle critiche, perché procedo attraverso l’esasperazione dei temi che sottopongo a indagine. Con 30/07/2017 cercavo di verificare quel tipo di cosa che andavo a criticare: l’oggettivazione della donna, l’annichilimento delle pulsioni per la sopravvivenza. Abbiamo l’evidenza di questi riferimenti attraverso più discorsi critici (quello delle letterature di settore, delle teorie femministe, delle critiche cinematografiche): il mio interesse è invece di ampliare quell’orizzonte di riflessioni provando a mostrare anche altre strade. Ossia, cercando di esasperare un soggetto e criticarlo attraverso quello che faccio.
Quell’ampliamento dell’orizzonte, spesso, cerchi di conseguirlo concentrandoti soprattutto sul cinema. Anche in questo caso, si tratta di un soggetto che esamini solo parzialmente attraverso il filtro delle immagini.
In questo periodo sto lavorando a un’opera che sarà esposta da CAMERA a Torino nella mostra FUTURES 2023: Nuove narrative curata da Giangavino Pazzola. Si tratta di un lavoro sull’incendio del Cinema Statuto di Torino avvenuto il 13 febbraio 1983. È stata la strage più grande avvenuta a Torino dal secondo dopoguerra, ma anche un evento che ha permesso di rivedere le norme di sicurezza nei locali pubblici. Un dettaglio importante, soprattutto per il mio modo di considerare le sale cinematografiche non solo come spazi di diffusione di immagini ma, anzitutto, come luoghi di incontro. Sto infatti agendo su più livelli. Ciò che mi interessa è in particolare la costruzione di una verità attraverso le immagini. Quella costruzione è profondamente legata al ruolo dei discorsi che derivano da quel disastroso evento e anche dalle immagini che sono state elaborate per descriverlo e studiarlo in quanto tragedia.
CONTRO GLI STEREOTIPI E GLI IMMAGINARI POP
Insieme a tutto quel lavorio intorno ai discorsi e alle immagini, un tuo modo per dichiararne l’insufficienza, credo che risalti anche la tua scelta di provare a scombinare alcuni stereotipi. Prendiamo Estate 1936: non rimetti in scena – in termini in qualche modo scenografici – la colonia, né la critichi direttamente. Piuttosto, ne ridisegni le atmosfere. Così facendo, lo stereotipo va in pezzi. E questo esito mi sembra che tu riesca a ottenerlo più volte: con la tua archeologia dei cinema, quando insisti a mostrare documenti, mappe, planimetrie e fotografie di sale cinematografiche di altri tempi. Sembra che se qualcuno provasse a dirti: “Eleonora, però alla fine le cose vanno così!”, tu risponderesti con: “Sì, ma chi te l’ha detto?!”
Assolutamente! Per me questa è una questione importantissima. Non è detto che le cose siano come le abbiamo pensate. Credo che il potenziale dei discorsi stia proprio in questa possibilità, riuscire a creare delle interferenze descrittive. Quello che provo a ottenere è la messa in luce di possibili scollamenti, punti di non ritorno, strati che risaltano inaspettatamente. La possibilità stessa di fare i conti con qualcosa di straniante, che però è già presente nei discorsi e nelle immagini.
Insieme agli stereotipi, ad andare in frantumi sono anche alcuni immaginari possibili. Sto pensando, per esempio, alla tua opera Naked Lunch, nella quale i tuoi bersagli sembrano essere gli immaginari pop e pubblicitari. Tutto è ridotto al minimo, ma per te questo significa lavorare su qualcosa come una presenza solamente apparente: in particolare la tua, che funziona come una scintilla per avviare riflessioni sulle possibilità immaginative.
Mi trovo molto spesso a sentire l’esigenza di fare i conti con gli immaginari delle nostre generazioni. È una esigenza che si può definire ‘estetica’, perché nasce da quello che sentiamo sulla base delle esperienze fatte da ciascuno con quei frutti culturali che hanno caratterizzato un decennio piuttosto che un altro. Naked Lunch, infatti, è figlio di un modo popolare di proporre delle immagini, ma anche di quella operazione di riavvolgimento dei nastri che avevamo a disposizione quando ancora usavamo le videocassette. Quest’ultima operazione è importante per me, perché mi permette anche di entrare all’interno delle dinamiche della ripetizione. Così facendo, cerco di dare seguito alla mia costante necessità di capire a che punto sono rispetto alle cose che mi stanno intorno.
Dunque, verrebbe da dire che quel soggetto ricorrente, il cinema, per te non sia tanto un insieme di risultati visivi e recitativi quanto piuttosto uno spazio di possibilità da scoprire ogni volta.
Mi ci ritrovo abbastanza. Spesso ragiono più sui contesti che non sui soggetti del cinema, sono di più le opere in cui lavoro così che non nel secondo modo. C’è sempre quella esigenza di esasperare i soggetti attraverso l’insieme di caratteri che definiscono le esperienze del cinema e non solo le sue forme, i colori, le immagini… Prima le relazioni, poi – forse – le immagini.
Davide Dal Sasso
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Davide Dal Sasso
Davide Dal Sasso è ricercatore (RTD-A) in estetica presso la Scuola IMT Alti Studi Lucca. Le sue ricerche sono incentrate su quattro soggetti principali: il rapporto tra filosofia estetica e arti contemporanee, l’essenza delle pratiche artistiche, la natura del catalogo…