Parlare ai muri
Questa lettera è indirizzata al sottosegretario della Pubblica Istruzione Marco Rossi-Doria, già maestro di strada e impegnato da anni in progetti educativi volti al recupero di alunni che vivono situazioni a rischio. La lettera gli è stata recapitata dalla redazione di Artribune. In attesa di una risposta, ecco il testo del mittente.
Gentile Marco Rossi-Doria,
quando è stato nominato sottosegretario dal Ministro della Pubblica Istruzione Francesco Profumo, in molti abbiamo sperato che la sua esperienza avrebbe prodotto miglioramenti tangibili al sistema scolastico italiano, sebbene siamo consapevoli di quanto sia arduo, in tempi rapidi, innovare un sistema soffocato da lentezze burocratiche e da una diffusa resistenza al cambiamento. È per questo motivo che vorrei, in quanto docente di Storia dell’Arte nelle scuole superiori, dare il mio modesto contributo con alcune proposte che scaturiscono da un’esperienza accumulata negli anni a diretto contatto con gli studenti.
La prima riguarda la possibilità per ogni docente di presentare un curriculum in cui, oltre all’esperienza in ambito scolastico, vengano valutate anche altre attività svolte, inerenti alla disciplina insegnata (workshop, seminari, curatele di mostre, pubblicazioni, residenze, collaborazioni con musei e fondazioni ecc.). La valutazione complessiva della vita professionale dei docenti porterebbe un beneficio immediato, in quanto ognuno di loro vedrebbe riconosciuto e valorizzato il proprio lavoro nel suo complesso e costituirebbe una motivazione a innovare l’attività didattica. Il vostro ministero ha introdotto la possibilità per i docenti di aggiornare on line il proprio CV, ma sembra più un monitoraggio per ricollocare quelli in soprannumero in altre aree disciplinari. Lo stesso vale per gli studenti che possono certificare attività esterne e ottenere dei crediti.
Ciò che invece spesso si verifica nel concreto è una mortificante rimozione di tutto ciò che esula dalle lezioni frontali, rimozione operata anche nei confronti degli studenti, ai quali ugualmente non vengono riconosciute le partecipazioni a progetti in altri ambiti, sportivo, musicale e culturale in generale, vissute dall’istituzione scolastica come impegni che li distolgono dal loro compito primario di studiare i contenuti del programma. Le uniche cose che sembrano contare sono l’obbligo delle interrogazioni, il programma da svolgere, il controllo dei compiti per casa e gli elaborati in classe. Consideri, gentile Rossi-Doria, che in alcune sezioni del Liceo Classico l’insegnamento della Storia dell’arte è stato ridotto a un’ora a settimana, un tempo troppo breve per sviluppare un proficuo percorso formativo.
Come uscire allora da una condizione in cui la cultura del nostro tempo continua a essere ritenuta un corpo estraneo da tenere fuori dell’istituto scolastico insieme alla sensazione, una volta varcato il cancello dell’istituto, di lasciarsi alle spalle tutto ciò che realmente costituisce la vita vissuta? Vale la pena tentare di rendere la scuola un luogo aperto e piacevole articolando per esempio – ecco la seconda proposta – l’anno scolastico in alcuni corsi semestrali obbligatori di indirizzo e altri opzionali a scelta degli studenti. E nel caso in cui essi non venissero superati, la possibilità di ripeterli il semestre successivo. Affinché i concetti di autonomia e flessibilità non rimangano lettera morta e la scuola diventi uno spazio di condivisione di esperienze sia per i docenti che per gli studenti, credo che una strada possibile sia aprirla al mondo esterno; in questo caso ritengo che gli artisti potrebbero dare un importante contributo al rinnovamento formativo. Non è più pensabile che lo studio della Storia dell’arte in modo particolare si fermi inesorabilmente all’arte precedente alla Prima guerra mondiale, come se quello che è successo dopo sia qualcosa che non ci riguardi.
E infine un’ultima annotazione sugli spazi fisici dove si apprende. Un piccolo libro di Jacques Lacan si intitola Je parle aux murs. “Parlare ai muri” nel linguaggio corrente indica quella condizione nella quale nessuno ti ascolta. Ma in Lacan, così attento all’uso del linguaggio, la frase ha un significato letterale, a indicare che non si comunica solo con le persone ma anche con gli spazi architettonici che ci accolgono, ai quali erroneamente assegniamo poca importanza. Come è possibile infatti coltivare e apprezzare la bellezza e la passione per la conoscenza in luoghi che sono spesso brutti e tristi?
Maria Rosa Sossai
Articolo pubblicato su Artribune Magazine #9
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