Marinella Senatore. Come dovrebbe essere un artista 35enne
Artista e film maker italiana, da anni lavora in giro per il mondo. Dal 2006 cura progetti di partecipazione pubblica, coinvolgendo intere comunità alla realizzazione di opere collettive. I risultati di questi lavori sono spesso cortometraggi, talvolta libri, installazioni o opere liriche, ma è il metodo la chiave di lettura della sua pratica artistica. L'abbiamo incontrata poco dopo la fine delle riprese di “Rosas”, il suo ultimo mastodontico progetto.
Partirei proprio da Rosas, il tuo ultimo lavoro.
È un’opera lirica suddivisa in tre capitoli, pensata per il video e realizzata dal pubblico stesso. È un progetto che ha coinvolto quattro Paesi, tre grosse istituzioni e altre minori. La prima parte è stata girata a Berlino, con il supporto della Kunstlerhaus Bethanien, dove ero in residenza, la seconda si è svolta a Derby, in Inghilterra, presso il museo QUAD, e la terza al Matadero di Madrid.
Com’è mio solito, ho invitato i non professionisti a essere autori di ogni fase del processo creativo. Il mio ruolo è stato quello di organizzatrice e coordinatrice di tutta la didattica e dei workshop che sono serviti per la loro preparazione tecnica. In totale ho coinvolto circa 18mila persone.
Di che cosa parla?
La maniera in cui lavoro risponde in parte alla tua domanda. Io invito il pubblico a essere autore di ogni parte del processo, perché voglio che loro raccontino se stessi tramite la fiction. Non c’è una storia previa, sono tutte opere originali. È interessante vederli condividere memoria pubblica e privata, interagire tra loro e mettere in gioco se stessi. Tutte queste fasi di realizzazione e confronto sono documentate e fanno parte del montaggio finale.
Fra i tre plot narrativi ci sono poi delle analogie: ogni storia è sempre caratterizzata da situazioni improvvise che cambiano le cose. Nei tre video troviamo prima un’epidemia, poi un incidente e infine un terremoto. Insomma, un evento traumatico che cambia lo status della narrazione.
Perchè intitolarlo Rosas?
Rosas è il nome di una compagnia di balletto belga, fondata dalla coreografa Anne Teresa De Keersmaeker. Mi sembrava una figura retorica azzeccata per descrivere la compagnia ambulante e internazionale che ho creato in questi mesi. Molte delle persone coinvolte hanno viaggiato con me tra Spagna, Germania e Inghilterra.
La stampa inglese l’ha definito il progetto di partecipazione più grande mai realizzato per l’arte contemporanea. Come hai fatto a gestire così tanta gente?
Per un anno la mia vita si è annullata, concentrandosi solo su quest’opera. Ho viaggiato molto, da un Paese all’altro, stringendo moltissime relazioni. Coordinare tutto non è stato semplice ma ovviamente c’erano dei professionisti ad aiutarmi. A tal proposito cerco sempre di attivare energie locali come docenti, studenti, dottorandi, ma dalla scrittura dei plot al movimento scenico, dal suono fino alla postproduzione, è tutta opera del pubblico.
Per quanto riguarda i budget, come ti organizzi?
Uno dei pilastri fondamentali dei miei lavori è che non devono costare molto. Se i musei non finanziano adeguatamente, trovo altri modi. Nel 2009, ad esempio, per Speak Easy [musical ambientato nella New York Anni Cinquanta, realizzato assieme a una comunità di quartiere di Madrid, N.d.R.], gli studenti hanno portato avanti una campagna di raccolta fondi simbolica che richiedeva il contributo di 1 euro a persona. Inoltre cerco sempre di coinvolgere persone che possano mettere in campo le loro competenze senza chiedere soldi in cambio, come falegnami pensionati per le scenografie eosarte per i costumi. E qui gioca un ruolo importante un concetto: l’affezione.
Questa ce la devi spiegare meglio…
Queste persone lavorano a stretto contatto con me, per lunghi periodi. Di conseguenza si crea inevitabilmente un sentimento d’affetto reciproco. Il senso di unione e comunità che si genera permette di lavorare bene, talvolta anche fino alle 3 del mattino. In altri ambienti spesso questo non accade, nemmeno dove il denaro regola i rapporti.
La tua metodologia di lavoro si contrappone all’individualismo sfrenato che caratterizza la contemporaneità. Mi riferisco in particolare alla tendenza dei social network che ha portato, soprattutto le generazioni più giovani, a prediligere contatti virtuali a quelli reali. Sei d’accordo?
Certamente, è uno dei punti cardine del mio lavoro. Durante le riprese ho assistito frequentemente ai rapporti che scaturiscono tra le persone, in particolare tra le diverse generazioni. Le modalità di racconto e i codici di linguaggio sono molto diversi ed è bello vederli imparare ognuno qualcosa dall’altro. È soprattutto questo interscambio generazionale che si sta perdendo nella società. Un altro punto importante della mia metodologia è il mettere in discussione il ruolo centrale dell’artista: in tutte queste opere mi limito ad avviare e coordinare il processo, fornendo loro gli strumenti per poter lavorare da soli.
Cosa ne pensi delle occupazioni dei lavoratori dell’arte che hanno luogo in Italia? C’è una volontà concreta di riappropriarsi degli spazi pubblici…
In verità vivendo all’estero non sono molto informata su quello che sta accadendo in Italia. Posso però dirti che, nella realizzazione delle mie opere, ho sempre cercato di lavorare con persone che avessero esperienze di occupazione e ribellione. Sono molto attratta dai fenomeni di aggregazione che nascono per cambiare le cose, trovo siano estremamente interessanti per leggere i sistemi sociali.
Sei un’artista realizzata: cosa consiglieresti ai giovani artisti e creativi italiani che oggi faticano a ritagliarsi un posto nel sistema?
Consiglierei di avere grande senso etico, di studiare molto e di lavorare senza sosta. Io non conosco altre ricette. Possiedo due lauree, sto facendo un PhD e non ho intenzione di fermarmi. Certamente ho sacrificato molte cose nella vita, ma questo lavoro lo richiede. Consiglierei inoltre di non disdegnare la via lenta. Fare delle cose più facili o adottare escamotage, come lavorare con tante gallerie famose, non è detto che ripaghi sulla lunga distanza.
Oggi vivi a Berlino, ma hai vissuto per sette anni in Spagna, dove sei stata docente di sceneggiatura e video making all’Università di Castilla-La Mancha e alla Complutense di Madrid. Che cosa hai capito di questi due Paesi?
Trovo che il sistema spagnolo sia ancora più conservatore e problematico di quello italiano. A livello artistico è un Paese estremamente chiuso per tutto ciò che proviene dall’estero. Non c’è comunicazione, non c’è collezionismo e il livello della critica è piuttosto bassino. La Germania è l’opposto. L’area nordica in generale è più aperta e internazionale, ma vi ho trovato un’eccessiva attitudine critica. C’è poi un mito da sfatare: molti artisti pensano che Berlino sia una passeggiata, ma non è affatto così. Entrare nel sistema non è assolutamente semplice.
A questo punto mi viene da chiederti se l’Italia non sia un posto migliore dove fare arte.
Ci sono tanti aspetti positivi nel nostro Paese: un grande collezionismo, ottime gallerie e bravissimi artisti. Un italiano però fa molta più fatica a emergere, noi non siamo protetti dal nostro sistema e dobbiamo dimostrare cinque volte di più di uno straniero quanto valiamo. Il nostro Paese è davvero complesso, ci sono pochi concorsi importanti e i musei non comprano abbastanza.
Una curiosità: citi spesso Giuseppe Rotunno, tuo maestro alla Scuola Nazionale del Cinema di Roma e storico direttore della fotografia, il quale ha lavorato con registi del calibro di Fellini, Visconti e Fosse. Quanto è stata importante per te la sua figura?
Se amo la luce, che è una costante nei miei lavori, è proprio grazie agli insegnamenti di Giuseppe, che è stato fondamentale per la mia carriera. Mi ha fornito tutti gli elementi culturali e scientifici utili per fare questo mestiere, trasmettendomi la disciplina sul lavoro e l’attitudine della vecchia scuola cinematografica italiana; la stessa attitudine che ha conquistato anche Hollywood e che oggi mi permette gestire più di 20mila persone.
Per concludere, dove potremo vedere Rosas nei prossimi mesi?
Fino al 20 ottobre la prima parte di “Rosas” sarà in scena presso la galleria Peres Projects di Berlino. La seconda parte inaugurerà il 3 novembre, sempre nello stesso spazio e preceduta da una grande parata che coinvolgerà molti attori e persone che hanno lavorato con me (l’evento comincia alle 15.45 in Auguststrasse angolo Oranienstrasse e prosegue fino alle 17 terminando in Grossehamburgerstrasse, alla galleria Peres, NDR) subito dopo avrà inizio l’opening ufficiale della seconda mostra. Il 6 novembre “Rosas” verrà presentato da Viafarini a Milano e il 14 dicembre alla galleria Umberto di Marino, Napoli. Dopo, da gennaio incomincerà il tour mondiale.
Jean Marc Mangiameli
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