Fabbricare, fabbricare, fabbricare, preferisco il rumore del mare
L’undicesimo Festival Internazionale di Fotografia di Roma si è votato al tema del lavoro. Un classico, storicamente tra gli abbracci più intensi tra fotografia e realtà. Ma è ancora così? Qualche riga per definire la distanza capitale tra momento di cronaca e riflessione fuori e dentro il Festival.
Nel folto calendario degli appuntamenti con l’arte di questo autunno romano, la data del 20 settembre era, nelle agende di molti curiosi e addetti, cerchiata in rosso ad annunciare l’apertura dell’undicesimo Festival di Fotografia. Questa edizione dedicata al tema del lavoro, perfettamente in linea coi noti dettati di accessibilità e partecipazione, è riuscita a orchestrare un numero elevato di artisti, a rendersi reperibile attivando numerose istituzioni e realtà private e, in definitiva, a fare di un evento culturale, un evento discretamente popolare.
Il foglio delle presenze, dei patrocini, di artisti e curatori, sarebbe sufficiente a saturare questo spazio che non di cronaca si vuole occupare, ma di una modesta riflessione laterale. Bisogna però abbandonare lo sventolio degli annunci e il pressing delle immagini e applicare il medesimo criterio di distinzione che si impone a queste righe, alle stesse meccaniche del Festival. Sotto questa luce la domanda da farsi diventa: il Festival è un momento di cronaca o di riflessione? Ovvero, è il calco imparziale di una tendenza della fotografia d’oggi o il terreno per una possibile visione critica dei valori in campo? Una risposta può emergere a patto di riportare i termini all’essenziale: 2012, la fotografia, il lavoro.
L’accostamento dei termini fotografia/lavoro innesca, ancora oggi, una sinapsi automatica; nella cloud dell’immaginario comune, la mente scova gli scatti primi Anni Trenta di Walker Evans e Lewis Hine.
La fotografia trovava in quel momento una sua artisticità autentica attraverso gli strumenti di presenza, immediatezza e diffusione. Il lavoro che quella fotografia ritrae, manifesta una componente tragica ma eroica, tipica della cultura americana – protestante/calvinista – che lo profila come strumento di affermazione personale e collettiva, progressiva e democratica. Quella stagione però, è tramontata. A una critica alle dinamiche del lavoro e alle tappe del progresso, si è sostituita, negli anni più recenti, una critica alla natura stessa di lavoro e progresso. D’altra parte, la fotografia ha subito smottamenti ancor più radicali. Presenza, immediatezza e diffusione sono strategie oggi meglio espresse dal marketing e dal web. Non è sufficiente quindi un’operazione di restyling – BN/colore, fabbrica/ufficio – per garantire alla fotografia un’artisticità autentica che si confronta oggi non solo con l’alterità rispetto agli altri linguaggi dell’arte, ma che fa i conti col concetto stesso d’immagine e col predominio delle sue bulimiche declinazioni digitali, mediali e commerciali. Il rischio di questa fotografia, quella vista appesa – chiodini e cornici – alle tante pareti del Festival, è di farsi puro strumento di narrazione, di descrizione, di farsi ovvero – dopo la storica rivalsa sul pittorialismo – pittura di genere.
Il Festival diventa dunque un evento di cronaca che ribadisce – a parte rare singolarità – codici (la secolare alienazione) e strumenti (la stampa, il museo) di un passato perduto, e si fa, suo malgrado, momento di riflessione solo rispetto all’adeguatezza e all’attualità del medium fotografia come efficace strumento d’arte.
Luca Labanca
Roma // fino al 28 ottobre 2012
Fotografia, Festival Internazionale di Roma, XI Edizione
MACRO TESTACCIO E SEDI VARIE
Piazza Orazio Giustiniani 4
www.fotografiafestival.it
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