Fabio Novembre. Fenomenologia ulteriore
I progetti di Fabio Novembre andrebbero forse sorseggiati in occasioni particolari (come gli allestimenti per negozi, a cominciare da quelli per Bisazza che lo hanno reso famoso), ma non certo frequentati nella quotidianità. Sono troppo forti, eccessivi, sovraccarichi di ostentazione semantica. Una riflessione di Stefano Caggiano.
Perché la mia mano destra non può regalare denaro alla mia mano sinistra? Con questo domanda, Wittgenstein faceva notare come il significato di un fatto culturale (un gesto, ma anche un libro, un quadro, un film, un oggetto) non risiedesse nel fatto stesso ma nella rete di relazioni che intrattiene con gli altri fatti culturali a cui rinvia. La mia mano destra può infatti mettere il denaro nella mia mano sinistra, ma le ulteriori conseguenze di questa azione non sarebbero quelle di una effettiva “donazione”: tale gesto non sarebbe infatti connesso alla rete di implicazioni collegate a una effettiva donazione (tanto per dirne una, il denaro realmente donato non rientra più nelle mie disponibilità).
Il significato è come un iceberg, di cui il fatto culturale percepibile – il “fenomeno” – rappresenta solo la parte emersa che, senza quella sommersa, non sarebbe in grado di significare alcunché, rimanendo sospeso in una condizione di pura presenza plastica a-significante. Allo stesso modo, il successo di alcuni oggetti di design è dovuto alla congiuntura antropologica a cui rinviano come suo punto di tenuta, epifenomeni che raccolgono le tensioni significanti sottostanti ramificate molto al di là dell’oggetto stesso.
Questo potrebbe essere il caso del fenomeno “Fabio Novembre”, design-star capace come pochi altri di scatenare odî e odi, amori e amarezze. Come comprendere allora il senso di un lavoro che fa della ricerca semantica estrema una cifra caratterizzante? La spiegazione migliore del fenomeno “Fabio Novembre” la dà forse l’architetto Fabio Novembre (Lecce, 1966; vive a Milano) quando paragona i suoi progetti a superalcolici, cioè a bevande dalle tinte forti il cui sapore riempie gli occhi e il palato ma che bevute in quantità eccessiva (e un superalcolico è sempre “eccessivo”) portano a uno stato di ebbrezza indotta e surreale. Insomma, ubriacano.
I progetti di Fabio Novembre andrebbero forse sorseggiati in occasioni particolari (come gli allestimenti per negozi, a cominciare da quelli per Bisazza che lo hanno reso famoso), ma non certo frequentati nella quotidianità: sono troppo forti, eccessivi, sovraccarichi di ostentazione semantica. Non a caso è ancora Fabio Novembre a definirsi “ateo, nel senso che credo a tutti gli dei“. Tenendo presente questo, se anche i suoi progetti possono non andare sempre a segno, risulta comunque interessante ciò a cui mirano: una specie di fusione cosmico-merceologica di segni culturali iper-semantizzati, sincretismi estremi indifferenti alla distinzione fra cultura alta e cultura bassa e sensibili solo a quei “segni” che presentano un qualche significato forte per qualcuno.
Le sue sedie-volto e le sue sedie-culo possono essere viste come una sorta di metastasi poetica emersa su quella crosta merceo-antropologica che è la realtà “tarantinizzata” di oggi, vita post-estetica che rinasce come schiuma sui bordi di frizione delle placche estetiche apparecchiate da una fiction che non solo si è estesa fino a coincidere con il mondo intero, ma che è andata addirittura oltre, oltre la condizione di “disneyzzazione” della realtà di cui parlava Marc Augé per giungere al punto in cui la finzione, oltre a non essere più isola in mezzo nel reale, è orizzonte che contiene in sé il reale come suo caso specifico (un particolare “effetto di senso”, come si dice in semiotica).
Spettatori-clienti scafati a ogni linguaggio e al suo contrario, oggi non vediamo più da davanti il muro-schermo della fiction continua (questa era la società dello spettacolo di Guy Debord), ma lo vediamo da dietro, inamovibile eppure non ingannevole, come il trucco di prestigiatore che inganna ma non mente perché si basa su un accordo tra mago e pubblico. Posizionati non di fronte ma sul retro della maschera, oggi scopriamo che il reale è in fondo proprio questo “retro”. Ogni concetto è infatti definito da (almeno) un opposto, così che la “realtà” è tale in quanto contrapposta alla “fiction”. Ma, come notava lo spregiudicato Jean Baudrillard, non è la realtà che sta sparendo, ma la fiction, la “rappresentazione” intesa come dimensione autonoma e distinta dalla realtà, perché la funzione ha ricoperto, innervato, riarticolato la realtà con la quale ha infine dato vita a un ibrido reale-fittizio che contiene al suo interno tutto il “vero” e tutto il “falso”, tutto il “reale” e tutto l'”immaginario”, mostro densamente dimensionale a cui non si contrappone alcuna esteriorità.
Che design proporre a un mondo così onnivoro da non rifiutare più niente? Cosa dire a un ibrido reale-fittizio senza più “osceno”, nel senso di “fuori scena” (come diceva sempre Baudrillard)? Cosa progettare per una società in cui è in scena (e vale) tutto e il contrario di tutto? Cosa raccontare a un mondo popolato da divinità opposte, che si annichilano a vicenda perché compresenti sulla scena? Un mondo ateo non perché privo, ma perché troppo ricco di dei?
L’epifenomeno “Fabio Novembre” sorge da tutto questo contesto come emergenza mediatico-progettuale inserita in un generale ritorno del “paganesimo” attraverso la via semio-merceologica del nostro mondo moderno e secolarizzato. Un paganesimo che parla la lingua folle, colorata, contraddittoria, business-oriented e business-exploding del generale impazzimento poetico del mondo-mercato.
Stefano Caggiano
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