In memoria di Andrea Di Marco

Un racconto in soggettiva, che celebra la figura di un grande pittore italiano, scomparso nella notte tra l’1 e il 2 novembre 2012, a Palermo, a soli 42 anni. L’esperienza di un lutto indicibile. L’omaggio alla pittura di Andrea Di Marco, alla sua storia, alla sua umanità, ai suoi luoghi e alla sua visione del mondo. Nel ricordo della morte e soprattutto della vita, insieme a una piccola comunità di artisti e di fratelli.

Di Andrea Di Marco ho amato tutto, subito. Un amore che è stato intesa immediata e che negli anni è cresciuto, diventando legame. Un amore di fratelli, di compagni d’avventura, autentico, tenero, intellettuale. Parlavamo moltissimo, io e Andrea. Quasi a fingere di scrivere pagine di letteratura, tra il suo studio polveroso, i soliti locali della Vucciria, le serate chiassose tra i musei e le gallerie, e quei nostri vagabondaggi inquieti, biografici quanto mentali. Parlavamo d’arte, soprattutto. Ed era passione, che bruciava tra le pupille e il petto, tra un whisky e una telefonata, tra catene di sogni sempre nuovi e quel retrogusto un filo bohémien, che non ci piaceva ma che ci abitava, nel profumo mortale di questa città.
Questo era Andrea, questa ero io, questi eravamo tutti noi, amici e fratelli nell’arte. E questa era la terra in cui volevamo restare, ossessionati dal senso di un’appartenenza di cui cercavamo il perché, come segugi fieramente randagi. Non andare via dalla Sicilia, da Palermo: un imperativo categorico, un amplesso mai concluso, una geografia religiosa scritta con la dedizione dell’esploratore. Noi volevamo capire: essere cosa, essere chi, essere figli prima che padri, essere fra la morte e l’amore, cultori di mitologie infuocate ed eredi di tradizioni infiacchite. E di tutto questo farne le spese, con l’infelicità e la gioia, con la precarietà e la concentrazione, col desiderio e l’abbandono. Stare in un luogo per diventare luogo, noi stessi.

La scuola di palermo In memoria di Andrea Di Marco

La scuola di Palermo al completo: Andrea Di Marco, Fulvio Di Piazza, Alessandro Bazan, Francesco De Grandi – Inaugurazione Palermo Blues, Cantieri Culturali alla Zisa, estate 2001

Andrea è morto la notte del 1 novembre. Aveva 42 anni ma sembrava un ragazzino. Sono arrivata in quella casa, alle 3 di quella notte sbagiata, che lui era già spirato, da un paio d’ore almeno. Un viaggio in macchina, ipnotico e furioso, come se stessi sfrecciando contromano nel mezzo di un sogno: correre forte per arrivare al risveglio. Ma risveglio non fu. Andrea era morto davvero.
Lo abbiamo vegliato fino alla sera successiva, senza fermare le lacrime, quasi che il buio ci fosse franato addosso. La piccola famiglia dell’arte si vestiva a lutto. Colpita al cuore, come nel più atroce dei film.
E in quella notte sbiadita, che aveva l’aura di una pellicola tragicamente surreale, io mi spostavo dal letto di Andrea al divano in soggiorno, facendo esercizi di coscienza ed attenzione: non scambiare l’incubo con la verità, non arrendersi alla stretta del sogno, distinguere la realtà dall’immaginazione. La vista del cadavere serviva a poco. Quello non era Andrea, quella non ero io.
E nel tumulto di sensazioni opache, nel vivo di un dolore che prendeva lo stomaco, facendosi beffa della ragione, continuavo a  vedere scorrere – dall’occhio destro a quello sinistro, come in un lungo piano sequenza – tutta la pittura di Andrea. I suoi quadri sono stati, assieme alla sua faccia pallida e fredda, la mia ossessione notturna. Li vedevo tutti, alcuni in particolare, mi passavano davanti come se fossi io sul punto di morire; e anziché ricordarmi in un flash della mia vita, mi ricordavo di lei, della pittura di Andrea. Lui moriva in me, mentre io resistevo in lui, scambiandoci i tempi ed i ruoli. Passaggi di immagini: tra me, in piedi e con la testa troppo calda, e lui, disteso, ormai abituatosi al gelo.
Io e Andrea ci siamo parlati quella notte. E se non è stato un fatto di anime e di resurrezione, è stato un fatto di pittura. Che poi, in fondo, è un po’ la stessa cosa.

sebastiano In memoria di Andrea Di Marco

Andrea Di Marco – Sebastiano

Andrea Di Marco è un pittore con una cifra personalissima, inconfondibile. È uno che non ha avuto paura di mandare a quel paese le mode, i cliché, le regole e i rituali compiacenti del sistema. Non si poneva nemmeno il problema. Studiare, mettersi in gioco, forzare il limite della propria pittura, sempre; ma solo per raggiungere un presente che fosse contemporaneo davvero. Ché la parola  “contemporaneo”, per uno come Andrea, significava l’esatto contrario della parola “trendy”. Siamo davvero contemporanei? Ce lo siamo chiesto tante volte: io come lui, Francesco de Grandi, Fulvio Di Piazza, Alessandro Bazan, i ragazzi di quella “Scuola di Palermo”, battezzati dal “blues” di una prima collettiva importante, ai Cantieri Culturali alla Zisa, undici anni fa.
Bazan, per esempio, chiamò la sua recente mostra alla Gam “Moderna” e volle un catalogo tutto in bianco e nero. Nostalgico? No, ironico. Come sempre. Siamo tutti moderni, fuori dal postmoderno per non esserci mai entrati davvero. Un discorso delicato. Che forse si riassume così: non esiste attualità senza autenticità, non esiste libertà senza identità, non c’è presente senza radici. Nessuna rivolta senza il gusto della storia.
Andrea Di Marco, affezionato al colorismo ottocentesco del maestro Francesco Lojacono, mi ha spesso riportato alla mente anche Giorgio Morandi. Quei barattoli e quelle bottiglie, categoricamente contemporanei, annegavano nel silenzio lattiginoso di una tradizione nobile, docilmente aperta al mutare dei tempi. Niente chiasso, niente clamore, niente mode né proclami. Nel rigore di uno studiolo, in una quieta Bologna mai tradita, quell’uomo scriveva una pagina di storia della pittura italiana. Senza emuli, senza doppioni, senza mercanti né padroni.

Francesco De Grandi e Andrea Di Marco durante lallestimento alla Gam marzo 2011 foto Rosellina Garbo In memoria di Andrea Di Marco

Andrea Di Marco, Mostra alla Gam

Andrea era così. Uguale. Nel suo studio di via Gemmellaro, diviso con l’amico fraterno Francesco, coltivava il suo sogno discreto, tanto febbrile quanto sobrio.  Essere un pittore, italiano e siciliano, semplicemente figurativo. Essere pittore della crisi, in un tempo di macerie e disorientamenti, con la voglia di contrapporre all’iconoclastia del concetto e al fantasma della cosa, la certezza di una tradizione, l’approdo di un’immagine concreta. Il punto? Creare un aggancio solido al mondo, senza che fosse verismo, realismo, lettura sociale; una meditazione incompiuta che lasciasse avanzare, lungo i contorni di luoghi ed oggetti, quel senso profondo dell’essere uomini, comuni e mortali.
Immaginarsi, allora, come una comunità che viene, mai trascendente, mai assoluta, offerta alle molte latitudini e alla storia. Eppure armonica, coesa.
Nel movimento luminoso e denso del colore si compiva un percorso accidentato, fatto di ancoraggi ed aperture, di mutazioni e resistenze, di contaminazioni e identità, di giovani macerie ed orizzonti perenni. Incastri, tra la salvezza e il destino.
Questa era la vita, per Andrea. E questa è oggi la sua pittura: tattile, corposa, lucida. Un mucchio di oggetti muti, messi in parentesi, fermi, senza presente né futuro, senza funzione né voce, derubati di ogni presenza umana e di ogni narrazione: barche capovolte e dormienti, stazioni di rifornimento abbandonate, statue equestri nel trionfo di piazze nordiche, camion solitari, saracinesche chiuse, tendoni di strada calati come drappi preziosi, giostre immobili che non girano più, sedie austere e sbilenche su cui nessuno si è seduto mai e mai si siederà.
Pretesti. Utili a rintracciare lo schema invisibile del creato, ipotizzando il suo passaggio in visione.

scalasanta cm 45+60.2009jpg In memoria di Andrea Di Marco

Andrea Di Marco – Scala santa – 2009

Quello di Andrea Di Marco è un catalogo visivo sospeso tra antropologia e spiritualità, tra logica e sentimento, nel tentativo di intravedere, sotto le pelle del mondo, sentieri che unissero prosa, poesia e concetto. Geometrie dello spirito, forme esatte scolpite nella materia povera del mondo e tramutate, sottovoce, in icona.
Di quel sabato mattina, di fronte alla chiesetta di Santa Susanna, ricorderò soprattutto il sole. Un sole d’autunno, nel mese dei morti e dei santi, a investire la folla in attesa del definitivo commiato. Il cielo era sgombro, di un azzurro insolente; e il sole caldissimo, fuori stagione. Un mattino allegro, come allegro sempre era Andrea.
E così mi ricorderò di lui, cercandolo ancora dove il sole si farà sfacciato, nei mattini a venire e in quelli da desiderare, nei vicoli di Palermo e nelle luci gialle. E cercherò quell’eco squillante di risata, nel baccano del centro storico, nelle discussioni accese degli amici, negli opening affollati, nei vecchi palazzi coi soffitti affrescati, tra le periferie e le distese di sabbia, tra i cani sgualciti e sporchi, come camicie stese al puzzo di ‘stigghiole’, tra scie umide di gelsomino.
E di nuovo lo cercherò, nelle chiacchiere spese sui marciapiedi o negli appartamenti, dove si parlerà di arte e poi di arte ancora, di politica e di sogni stanchi, di sfide e di rivolte. E della nostra guerra di pazzi e di perdenti. Quando forse i vincenti eravamo noi, con in testa l’utopia della vittoria, noi che puntavamo a un’imprecisata gioia, con tutta quell’umanità che straripava.

Andrea Di Marco e Alessandro Pinto In memoria di Andrea Di Marco

Andrea Di Marco e Alessandro Pinto

Tutti quanti noi, combattenti a intermittenza, senza ambizioni a parte l’amore, senza corse fasulle, senza carriere alla porta, senza brame di trofei. Spesso in trincea, affamati e discreti, con la nostra preghiera da scandire: lavorare per scoperchiare un pezzetto d’infinito, per prenderci uno sputo di verità, per avvicinarci al cielo. Noi, che resteremo dove tu eri voluto rimanere. A dedicarti nuovi fallimenti e conquiste sincere, a raccontare di te, a renderti omaggio.
E non saremo soli, Andrea, nemmeno in questo gelo finale. La luce è la stessa che avevi immaginato tu: tersa, viva, celeste, mediterranea, luce di contrasti e di vette gioiose. Luce alta, a vegliare su di noi pure quando sarà sera. Luce di albe e di lavoro. E così, nei tuoi neri barocchi, nei tuoi bianchi di neve, nei blu purissimi, nei rosa cipriati e a volte squillanti, negli azzurri di polvere e pioggia, nei grigi di fango e di nebbia, nei gialli di grano e d’aurora, nei marroni mesti come vecchi cappotti, nei bruni screziati di porpora, come foglie in ottobre: qui ti cercherò e ti celebrerò, qui troverò il timbro e la voce per dire chi sei, tra i cieli del ricordo e della pittura.

Helga Marsala

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Helga Marsala

Helga Marsala

Helga Marsala è critica d’arte, editorialista culturale e curatrice. Ha insegnato all’Accademia di Belle Arti di Palermo e di Roma (dove è stata anche responsabile dell’ufficio comunicazione). Collaboratrice da vent’anni anni di testate nazionali di settore, ha lavorato a lungo,…

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