Incontro tra funzione pubblica e interessi privati. E come la cultura ne può beneficiare
Se la funzione pubblica può essere esercitata anche da soggetti privati, allora è la stessa definizione di funzione pubblica che deve essere ripensata. Una riflessione sulla situazione in Italia
Il concetto di funzione pubblica è un tema che emerge spesso all’interno del dibattito relativo al settore culturale e rappresenta, a dire il vero, un concetto che rischia di essere limitante già nella propria formulazione.
Si tratta, infatti, di un concetto intrinsecamente dicotomico; sussiste, infatti, soltanto se dividiamo la nostra vita (sia come individui che come società) in due categorie di azioni: quella privata, che ci vede figli di un utilitarismo microeconomico razionale, e quella pubblica, che invece è necessariamente condotta da enti sovrapersonali.
Cos’è la funzione pubblica
Alla base di questo concetto, infatti, è il semplice egoismo miope e utilitarista: se tutti noi adottiamo comportamenti volti a generare dei benefici esclusivamente personali, allora è chiaro che ad intraprendere azioni che invece vadano a vantaggio della collettività debba esserci una struttura sovra-personale, che sia in grado di mitigare l’insito egoismo dei propri componenti attraverso procedure che consentano di poter monitorare se, e in che misura, le azioni vadano realmente a beneficio della collettività.
Funzione pubblica è infatti da un lato una funzione che riguarda gli interessi pubblici (dove per pubblici si intende la collettività) e che dall’altro è affidata a soggetti pubblici (dove per pubblici si intende afferenti la Pubblica Amministrazione).Si tratta di costrutti importantissimi che sono alla base della nostra stessa società (non a caso il concetto di funzione pubblica viene richiamato in più di un’occasione all’interno della nostra Costituzione), ma che forse ha perso, nel tempo, parte della propria aderenza alla realtà.
Senza entrare in dettagli eccessivamente tecnici, il concetto di base è molto semplice: in sempre più aree del mondo emerge un interesse individuale verso il miglioramento delle condizioni collettive, ed è un interesse che si inserisce all’interno della quotidianità delle persone e delle organizzazioni, e non è semplicemente relegabile all’interno della categoria di attività riassumibile come volontariato.
L’evoluzione degli ultimi decenni, sia sotto il profilo normativo che sotto il profilo prettamente economico, ha infatti evidenziato come comportamenti pro sociali possano generare miglioramenti nello scenario di riferimento tale da incrementare anche i ritorni privati.
È un principio ben più potente delle tanto promosse responsabilità sociali e ambientali, perché a differenza di queste ultime, che rappresentano dei concetti che a un certo punto sono stati più o meno imposti agli imprenditori, la capacità degli imprenditori di guardare oltre alla più miope massimizzazione degli incassi non solo è emersa spontaneamente all’interno del mondo imprenditoriale, ma include soprattutto un concetto di crescita reciproca.
“Fino a quando, a discapito di ogni evidenza contraria, l’Italia continuerà a pensare che il privato è egoista e il pubblico è assistenzialista, ci sarà sempre un conflitto immotivato e anacronistico”
Funzione pubblica e soggetti privati
Nel nostro contesto europeo, così intriso di soggetto pubblico, può apparire un discorso prettamente teorico, ma in molte aree del mondo i soggetti privati forniscono benefici che, in Italia vengono completamente demandati al soggetto pubblico.
Negli Stati Uniti, ad esempio, all’interno dei benefici del contratto di assunzione rientrano anche le green-card per familiari, la scuola, e altri elementi volti a migliorare la vita del proprio dipendente.
Qui, chiaramente, non si intende porre sulla bilancia il sistema statunitense con quello italiano. Piuttosto si vuole evidenziare un elemento che altrimenti rischierebbe di restare nell’alveo delle speculazioni intellettuali.
Le imprese che adottano comportamenti come quelli indicati, non li adottano di certo per tutte le tipologie di dipendenti. Le adottano per quei dipendenti che ritengono possano rappresentare un valore aggiunto per la propria attività. Elemento importantissimo: non lo fanno perché hanno uno specifico mandato statutario che le obbliga a tale tipologia di comportamento; lo fanno perché pur di riuscire ad acquisire tale risorsa, sono disposte a investire non solo in termini di stipendio, ma anche in termini di miglioramento delle condizioni di vita.
Nel nostro Paese pratiche di questo tipo sono molto più rare, perché quei servizi sono demandati al settore pubblico, e questo implica una sorta di deresponsabilizzazione da parte del privato.
Una condizione che accade non solo perché il privato già paga, in termini di maggiore imposizione fiscale, tali servizi, ma anche perché la stessa presenza di un soggetto deputato al sostegno sociale comporta la riduzione, a livello collettivo, di atteggiamenti proattivi.
È una dinamica, questa, ben nota a coloro che si occupano di studiare il comportamento collettivo, campo nel quale sono molteplici le ricerche che dimostrano questa tendenza.
Cultura, funzione pubblica e interessi privati
Ritorniamo dunque alla nostra cultura: quali sono i confini, in ambito imprenditoriale, tra l’agire per l’interesse collettivo e l’agire per il proprio “utile”? Detto in altri termini, l’agire di un imprenditore che sviluppa mostre a pagamento in grado di incuriosire persone che non sono normalmente interessate all’arte è realmente distinguibile come afferente esclusivamente all’interesse privato (perché guadagna) o all’interesse collettivo (perché stimola nuovi pubblici culturali)?
La risposta è chiaramente negativa: chi è coinvolto in una catena di creazione del valore socialmente desiderabile genera un valore aggiunto a livello sociale anche perseguendo il proprio interesse.
Una condizione che è evidente confligga con la definizione di funzione pubblica illustrata in precedenza, sia perché ammette che nel perseguire l’interesse collettivo si possa anche trarre un vantaggio personale, sia perché supera quella scissione tra “pubblico” per tutti e “privato” per sé.
Qui iniziano però le note dolenti: se la funzione pubblica può essere esercitata anche da soggetti privati, allora è la stessa definizione di funzione pubblica che deve essere ripensata.
E ancora, dato che nella nostra Costituzione (art. 119) è stabilito che gli enti pubblici nel perseguire una funzione pubblica possono avvalersi di specifiche risorse, è corretto affermare che quando il privato persegue un interesse collettivo quest’ultimo debba beneficiare di risorse ulteriori rispetto al proprio rischio imprenditoriale?
Detto ancora in modo più chiaro: per quale ragione agli imprenditori è sempre più richiesto di assolvere a funzioni pubbliche attraverso risorse proprie, mentre al soggetto pubblico viene riconosciuto non soltanto il pagamento dei dipendenti, ma anche risorse aggiuntive?
“Chi è coinvolto in una catena di creazione del valore socialmente desiderabile genera un valore aggiunto a livello sociale anche perseguendo il proprio interesse”
La funzione collettiva
Facciamo un esempio: un Comune decide di aprire un museo e di prevedere 4 unità di personale per le attività di biglietteria, accoglienza e servizi di assistenza alla visita. Le risorse di cui disporrà il Comune saranno pubbliche (cioè della collettività), e saranno investite sia in termini di pagamento del personale sia in termini di stimolo alla visita (produzione di mostre, comunicazione, ecc.).
Ora immaginiamo che al posto di intervenire direttamente, il Comune decida di avvalersi di un soggetto privato, cui verrà richiesto di investire proprie risorse per sostenere gli investimenti, investire proprie risorse per l’incremento dei visitatori e, spesso, investire proprie risorse per “pagare” l’Amministrazione proprietaria del bene sotto forma di percentuale degli incassi da biglietteria e/o da servizi aggiuntivi.
Ciò perché, è chiaro, nel nostro sistema di pensiero il privato sta perseguendo il proprio obiettivo (che è il profitto), e per perseguire il profitto in un ambito riconosciuto come socialmente desiderabile, deve non solo sostenerne autonomamente gli investimenti, ma deve altresì corrispondere all’Amministrazione specifici canoni di pagamento.
Si tratta, insomma, di un sovvertimento di ciò che dovrebbe essere inteso il concetto di funzione pubblica.
Forse è il caso di istituire una funzione collettiva, e premiare quegli imprenditori culturali che sono disposti a perdere il proprio tempo, la propria competenza e il proprio capitale, pur di produrre un miglioramento nella qualità e nella quantità di conoscenza.
Forse è il caso, ancora, che si rifletta un po’ più a fondo su come stimolare il superamento di queste divisioni e porre al centro del proprio operato (pubblico e privati) il benessere collettivo aggregato.
Ma fino a quando, a discapito di ogni evidenza contraria, l’Italia continuerà a pensare che il privato è egoista e il pubblico è assistenzialista, ci sarà sempre un conflitto immotivato e anacronistico a rendere lente, sospettose e burocratiche le iniziative di collaborazione tra soggetti di natura differente, volti a perseguire quell’interesse collettivo che troppo spesso confondiamo con il pubblico.
Stefano Monti
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