Gli oggetti della memoria nella mostra di Chiara Bettazzi a Firenze
Tra arte contemporanea e storia scientifica, le antiche carceri fiorentine ospitano un intervento site specific dell’artista pratese, nota per la sua ricerca sull’estetica degli archivi e sugli oggetti come inneschi di memoria
Il complesso delle Murate di Firenze ha una storia ricca e affascinante soprattutto per gli stravolgimenti di destinazione che nei secoli l’hanno visto trasformarsi da monastero religioso a prigione napoleonica, fino a un utilizzo prettamente utilitaristico (distretto militare, abitazioni civili, studi d’artista – si annovera anche Lorenzo Bartolini tra i soggiornanti – e persino una fabbrica di fuochi d’artificio), poi nuovamente istituto carcerario e ancora destituito a immobile sfitto.
Questo continuo braccetto tra degrado e riqualificazione si sposa bene con la poetica di Chiara Bettazzi (Prato, 1977), artista ospite del progetto di residenza organizzato da MAD Murate Art District, attuale anima culturale allocata nel quartiere delle Murate, promotrice di eventi che spesso confluiscono in mostre e installazioni specifiche volte e rendere meno trascurati gli spazi delle antiche carceri. Soprattutto, le finalità parrebbero avvicinarsi a un’idea di “piazza” contemporanea, dove i confronti intellettuali e le disamine sulle opere d’arte siano di casa, strizzando l’occhio alla didattica.
La mostra di Chiara Bettazzi a Firenze
Su questo piano si può comprendere il coinvolgimento del Museo Galileo come partner del progetto espositivo, benché l’arbitrarietà della location, anzi dislocation, pone qualche perplessità sulle chiavi di lettura della mostra. Standby. Installation view, a cura di Valentina Gensini, direttrice del MAD, e Letizia Bocci, storica dell’arte, racchiude in sé molta della potenza creatrice di Chiara Bettazzi, la sua particolare attenzione ai punti di vista installativi e pure qualche felice riproposizione del suo repertorio artistico (quasi dei piccoli reenactment). Tuttavia è sull’urgenza di specificità territoriale e pertinenza spaziale che si percepisce un attrito fruitivo.
Nella ricerca dell’artista ben rientra l’utilizzo della fotografia come frammento della realtà, medium che adopera egregiamente per tingere di un velo romantico la bellezza dei reperti antichi rintracciati nei depositi del Museo Galileo, nondimeno evitando di “caricare” gli scatti di plasticità o intenti narrativi, semplicemente favorendo nella reiterazione e nella scala di grandezza dei soggetti prossima al 1:1, un’eloquenza già di per sé estetica, non lontana alla bellezza del documento sviluppata da Georges Bataille.
Qualche dubbio sull’uso della plastica trasparente: pur rientrando nella poetica dell’object trouvè tipica del linguaggio della Bettazzi, le volte che riveste il ruolo di organo separatore dai lavori esposti – nella buona intenzione (forse persino polemica) di ribadire l’inaccessibilità pubblica di alcuni referti e opere, quindi accenderne il desiderio – invero ne inficia lo stato di integrità (Ruskin) degli oggetti-monumenti. È la medesima logica che pone i manufatti artistici sotto teca, contraria alla forza lirica dell’incessante fare/disfare nata dall’indagine artistica di Chiara Bettazzi.
Certamente un appuntamento da recuperare per meglio esperire e dunque prendere coscienza autonomamente su quali memorie, collettive o personali, valga la pena evocare.
Luca Sposato
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