Partiamo dall’inizio… e dalla fine del percorso della mostra a Varese. Si parte con Three Women (2008) e si conclude con The Reflecting Pool (1977-79): un visitatore un po’ distratto potrebbe pensare si tratti di due artisti, due “mani” diverse. Tuttavia, in entrambi questi video mi pare che il tuo interesse sia indagare la soglia, il passaggio e il relativo stato di transizione. Può essere considerata una prospettiva unificante del tuo percorso?
Sì, è un tema ricorrente che unisce il percorso artistico che ho scelto. Sono molto felice che tu abbia citato questi due lavori all’inizio della nostra intervista. Quando ero proprio all’inizio della mia carriera nei primi Anni Settanta, i due ambiti che ero più interessato a esplorare erano la natura e il Sé.
La natura è grandiosa e apparentemente infinita. È travolgente e imprevedibile, come il mare. Il Sé, l’anima, è interiore e profondamente personale. Come un animale notturno, si nasconde fino al momento giusto per uscire dalla tana. Entrambi sono aspetti fondamentali della nostra esistenza e ho passato un bel po’ di tempo a frugare, a scavare in ciascuno. Tuttavia, quando provavo a guardare più da vicino e insieme le due cose, mi sembrava di non conoscere nessuna delle due tanto bene.
Come hai risolto la questione?
Ho fatto qualcosa che sembrava contraddittorio, ma che presto è diventato una tecnica comune per me: ho spinto le due cose il più lontano possibile tra loro agli occhi della mia mente. Vederle da una certa distanza ha cambiato tutto. Improvvisamente, il paesaggio esterno e quello interiore diventano una cosa sola. È il momento in cui il video ambientato nel “paesaggio” esterno, The Reflecting Pool, e il video dall’ambientazione “astratta”, interiorizzata, Three Women, possono incontrarsi e riflettere il proprio sguardo ciascuno nello sguardo dell’altro. È vero che sono molto interessato alle soglie, ai confini, alle transizioni, ai passaggi, ovunque vi sia instabilità e movimento. È la natura porosa di questi momenti e la loro manifestazione temporale che permette al presente e al passato di coincidere e sovrapporsi. Ecco perché, nel tardo 1969, sono stato immediatamente catturato dal video e dai media elettronici dal primo momento in cui li vidi.
Un’evidente differenza fra i tuoi lavori fino alla metà degli Anni Novanta e quelli successivi è la sparizione di te stesso come interprete dei video. Bill Viola si è trasformato da performer in regista? È una scelta legata alle differenti tecniche di realizzazione dei tuoi lavori più recenti o a una precisa volontà espressiva?
Non mi sono mai sentito a mio agio pensandomi come un performer o un regista, un cameraman, un tecnico di montaggio, un architetto o qualunque altra figura formale del mondo professionale. Questi sono solo abiti esterni che indossiamo quando stiamo facendo il lavoro che ci è richiesto. La vera questione si trova più in profondità: chi sei tu quando sei da solo? Chi sei tu quando sopravviene l’idea? Chi sta davvero realizzando il lavoro?
Io considero ciò che sto facendo come un viaggio. È un percorso lungo una vita. Ha origine nel profondo, dentro di me, in un luogo del quale non ho il controllo. È un dono. Io so che sarò in viaggio lungo questo percorso fino al giorno in cui morirò, o almeno finché la voce interiore non mi abbandonerà. Questa verità mi dà forza. È l’essenza di ciò che faccio, di chi sono. Si basa su una combinazione di certezze e di mistero. Si basa anche sull’onestà, onestà nei confronti di me stesso e degli altri, nella forma e nell’essenza del lavoro, onestà nei confronti dell’ispirazione che mi ha guidato, benché a volte io non riesca ad arrivarci.
Questo è il motivo per cui è irrilevante chiedermi se sono un performer, un regista o qualunque altra cosa. Faccio semplicemente ciò che la mia voce interiore, la mia anima mi dice di fare. A questo passaggio delicato la mente cosciente non prende parte. Intendo ciò che ho detto letteralmente. Questo aspetto di intelligenza razionale è utile solo più tardi, quando la visione, l’idea interiore è al sicuro e i dettagli tecnici o concettuali devono venire affinati. Ecco perché quella delle scuole d’arte è oggi una situazione troppo “di testa” e non abbastanza “di cuore”. Enfatizza il lavoro concettuale e spesso manca della potenza dell’intuizione e della forza emozionale che sorge spontaneamente, al di fuori dei contesti formali e direttamente nella persona che la riceve.
La presenza dell’acqua è trasversale a tutto il percorso della mostra. Questo “ingrediente” viene però usato in modi diversi. È una placida piscina, una cortina invisibile da oltrepassare, un elemento in cui ci si tuffa o sul quale si galleggia… E c’è della vera acqua nei barili dell’installazione The Sleepers, in cui sono immersi i monitor con i volti dei dormienti. L’acqua mi sembra legata, più che alla rappresentazione metaforica della vita, all’idea di soglia e di passaggio cui accennavo prima: uno stato intermedio tra io e mondo, o tra un al di qua e un al di là.
L’acqua è una metafora per molte cose. È sia liquida che solida, fisica e metafisica, interna ed esterna, creativa e distruttiva, realtà e illusione. È uno stato, come dici tu, tra il Sé e il mondo, il mondo e l’aldilà. Sono stato legato all’acqua per tutta la mia vita, a partire da un’esperienza molto vicina all’annegamento che ho avuto da bambino.
L’aspetto che mi piace maggiormente dell’acqua è la sua fluidità. È costantemente in movimento, sia nella forma di una rabbiosa cascata, sia in quella di un piccolo, regolare gocciolio nella crepa della parete di un canyon che potrebbe ridurre la facciata del precipizio in un mucchio di calcinacci. Il movimento dell’acqua è più simile al nostro “life field”, condividendo con questo la fluidità vitale. Gli antichi monaci taoisti cinesi conoscevano le proprietà uniche dell’acqua e ne descrivevano l’origine come “la struttura dell’Essere che è sottesa all’universo”. È costantemente in movimento, riflettendo continuamente la luce in una miriade di forme danzanti, proteggendo e nutrendo silenziosamente la vita (inclusa la nostra) e permettendoci di godere la nostra parte della bontà del mare, del cielo e della terra.
Senz’acqua i primi esseri umani non avrebbero mai visto il proprio riflesso nelle silenziose correnti, a riva. In breve, non ci sarebbe arte per noi umani da osservare, su cui riflettere, da emulare. Nessun mistero cui prendere parte, solo un interminabile silenzio.
Il rapporto con lo spazio e l’allestimento è certamente un aspetto determinante nei tuoi lavori. Rispetto ai grandi ambienti immersivi di alcune tue videoinstallazioni, molti lavori più recenti sembrano ripristinare un rapporto più tradizionale con lo spettatore e in qualche modo recuperare un dispositivo tradizionale della pittura, la cornice.
Le esperienze immersive delle grandi installazioni ambientali sono una continuazione dei miei lavori su scala simile iniziati negli Anni Settanta e che proseguono, saltuariamente, ancora oggi. I lavori che tu consideri abbiano instaurato una rapporto più tradizionale, “pittorico” con lo spettatore vedono la loro origine in due importanti sviluppi della mia ricerca. Per prima cosa, nei tardi Anni Novanta, ci furono dei grossi miglioramenti nella tecnologia degli schermi piatti che hanno raggiunto una qualità quasi fotografica dell’immagine in movimento. Inoltre, la scala dei nuovi schermi apriva a una più ampia varietà di formati, dimensioni e definizione.
Mentre sperimentavo la nuova tecnologia, mi stavo anche interessando di alcuni pittori nordeuropei del XV secolo, come i fratelli van Eyck, Rogier van der Weyden e Dieric Bouts. Questi artisti avevano scoperto la pittura a olio. Era in corso una rivoluzione nella qualità dell’immagine grazie alla valorizzazione dei dettagli e, cosa ancor più importante, per il fatto che la pittura a olio impiegava diversi giorni ad asciugare e poteva essere manipolata, alterata durante questo tempo. La tempera degli artisti italiani, che si asciugava in fretta, non lo permetteva. Con il cambiamento tecnologico nell’aria, stavo cercando di immaginare in quale secolo mi trovassi.
Per restare in un ambito “pittorico”, con gli schermi hai sperimentato anche il genere del ritratto…
Riguardo all’uso di schermi piatti orientati verticalmente nella cosiddetta “modalità ritratto”, iniziai nei primi anni del nuovo millennio una serie di lavori chiamati The Passions. Queste opere si occupavano delle emozioni umane e facevano uso di speciali macchine da ripresa ad alta velocità per ottenere un’estrema slow motion, rivelando così tutte le sottili sfumature del movimento e dell’espressione.
Questa tecnica è stata usata anche in una serie di lavori iniziati nel 2007, intitolati Transfigurations. Il lavoro centrale della serie è Ocean Without a Shore, presentato alla Biennale di Venezia nel 2007. Il setting era una piccola cappella sconsacrata del XV secolo poco distante da piazza San Marco. Le immagini mostravano persone che passano dall’oscurità alla luce. Nel processo attraversano un muro d’acqua che cambia il loro aspetto da un pallore spettrale a un colore pieno. Ho scoperto che per certi progetti la dimensione verticale, a scala umana (che era la tecnica preferita per la ritrattistica rinascimentale), può essere molto efficace quando usata in relazione con l’architettura. Poiché molti di questi lavori erano stati pensati per sfondi scuri o neutri, l’illuminazione doveva essere bassa e tutti gli elementi estranei dovevano essere ridotti al minimo.
Il riferimento all’arte del passato ricorre in diversi tuoi lavori, dall’articolazione in trittico di Nantes Triptych all’impianto compositivo di Emergence. Hai affermato come questo sia un utilizzo “strategico” di forme inscritte nel Dna della cultura che sottendono una visione della realtà e della società, al fine di attivarle in nuove energie. Gli autori delle opere cui fai riferimento, però, si percepivano parte di un più ampio ordine del mondo e delle cose: non potremmo mettere a fuoco il loro operato se non considerassimo quanto la religione – come spinta alla trascendenza ma anche come legante sociale – costituisse per il mondo e la società di allora un concreto orizzonte di senso e di azione. Queste “coordinate” conferivano un forte senso al loro operato. Quali sono le tue “coordinate”?
Le mie coordinate provengono dai nuovi media e dalla spiritualità. Tuttavia, ci sono in ogni dato periodo molteplici “linee d’orizzonte” nel paesaggio sociale, culturale, politico, e spirituale. Oggi noi esistiamo in parte a causa dell’ambiente mediale che ha significativamente espanso il continuo flusso di informazioni nel quale siamo immersi, sia letteralmente che metaforicamente. Leggendo i tuoi commenti a proposito della linea d’orizzonte durante il Rinascimento, sento che il nostro tempo non è molto diverso da allora. Ci sono sempre coordinate da qualche parte, con le quali potersi orientare. La differenza, oggi, è che le coordinate sono diffuse via etere, così anziché essere noi ad andare a prenderle e scegliere quelle di cui abbiamo bisogno, ora sono loro a venire da noi con tutto ciò che portano in dote, e di più, e noi ne siamo sopraffatti.
Così la situazione si è invertita e oggi noi vediamo come l’informazione sia diventata non più conoscenza, ma una forma di inquinamento. Le abilità richieste oggi sono da cercare più in azioni di tipo negativo: annullamenti, resi, rifiuti, terminazioni. Dire “no” è diventato il nuovo “sì”. Quindi abbiamo bisogno di un nuovo linguaggio per comunicare uno con l’altro in un modo positivo. Il mio pensiero per un ri-orientamento è fare dell’arte il nuovo linguaggio globale. L’arte è sempre stata il linguaggio universale dell’umanità. Ci parla attraverso le emozioni con il linguaggio del cuore e conosce la differenza tra giusto e sbagliato.
Desideri aggiungere qualcosa per concludere l’intervista?
Sì, due parole per i nostri giovani. Per favore, non arrendetevi! Non scoraggiatevi! Voi sarete presto i custodi del futuro dell’umanità. Abbiamo bisogno che voi ci mostriate la strada in questi tempi difficili. Abbiamo bisogno che ripristiniate la speranza, la cura, la dignità la fiducia, la correttezza, la lealtà, la verità e la fede. Abbiamo bisogno di nuove idee e immagini da portare con noi nel futuro. Il potere degli essere umani si trova nell’energia collettiva. Quando siamo uniti come un popolo, non c’è nulla che non possiamo fare! Siate forti. Siate compassionevoli. Siate gentili. Siate onesti con voi stessi e con gli altri. Avanti!
Stefano Volpato
Leggi la conversazione integrale in inglese
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