Al confine della performance. Live Arts Week a Bologna
Ormai appuntamento importante per gli appassionati di performing art, è tornata anche quest'anno a Bologna la Live Arts Week numero 6, dividendosi in vari spazi della città. Come sempre il festival, organizzato da Xing, ha riunito artisti visivi, musicisti, coreografi, italiani e internazionali, personalità singolari che stravolgono il concetto di performance. Da Nico Vascellari a Cristina Rizzo, da Alexandra Bachzetsis a Maria Hassabi e Gianni Peng.
“Dovendo qui parlare di tempeste, devo altresì menzionare la Scholomance, o quella scuola che si è supposto esistesse da qualche parte nel cuore delle montagne, dove tutti i segreti della natura, il linguaggio degli animali e le parole magiche e gli incantesimi possibili, vengono inscenati dal diavolo in persona…”.
Con le parole di Emily Gerard, pubblicate sul mensile The Nineteenth Century nel 1887, viene presentato il nuovo progetto di Nico Vascellari, artista sperimentale e radicale, da sempre interessato all’occulto e alla contaminazione di arte visiva, musica e performing art.
Più che una performance, Scholomance (II), già sperimentata al Palais de Tokyo di Parigi, appare come un’esperienza immersiva che coinvolge Prurient, musicista sperimentale; coreografi di punta della scena contemporanea italiana ed estera come Cristina Kristal Rizzo, Silvia Costa, Dana Michel, il Coro Alpino RC, Costante Biz, chioccolatore che cammina imitando il canto degli uccelli. Un labirinto che si scioglie, dunque, ramificandosi all’interno dell’ex GAM, storica Galleria d’Arte Moderna di Bologna, ospite della rinomata Settimana Internazionale della Performance nel 1977 e sede principale del Live Arts Week VI.
LA LOGICA DEL NON LUOGO
Ed è in questo “caos” che troviamo una logica del non luogo, in cui i perfomer creano altri mondi in qualche modo collegati tra loro, come a voler intrecciare una rete che se da un lato dà una sensazione di smarrimento dall’altro dona la possibilità di vivere e condividere la perfomance e, in alcuni casi, di incarnarla. Una foresta immaginifica illuminata da neon blu e rossi, caratterizzata da impalcature in acciaio e bronzo da cui pendono sculture di carcasse di animali e in cui ci si può imbattere contemporaneamente nei movimenti di Cristina Rizzo bendata tra gli spettatori; nelle trasfigurazioni di Silvia Costa; nei bicchierini di grappa offerti dagli Alpini; negli occhi fermi tra l’animalesco e l’umano di Dana Michel (Leone d’argento alla prossima Biennale Danza). Tutto incorniciato da intermezzi di musica giapponese, dai versi di Biz, suoni elettronici, urla primordiali e canti growl di Prurient e Vascellari. Sì, sembra di entrare nella casa di Satana. Una sensazione che svanisce mentre si cammina e ci si scontra l’un l’altro. Nel suo svilupparsi la performance perde di empatia, l’immersività si allenta mentre il pubblico tenta di seguire i differenti scenari creati dalle danzatrici sfavorite da spazi esigui, se rapportati al numero degli spettatori e alle dinamiche del progetto. Un’occasione –forse – mancata di audience development e un concept affascinante ma percettivamente distante.
CORPO E PROVOCAZIONE
La terza serata del Live Arts era dedicata al nuovo lavoro di Alexandra Bachzetsis, Massacre: Variations on a Theme. Uno dei momenti più affascinanti del festival grazie alle musiche incalzanti di Tobias Koch, a un pianoforte che suona da solo, a due pianisti che corrono ripetitivi sui tasti e sulle corde dando ritmo e sostanza ai movimenti compulsivi e reiterati delle tre performer. Quadri sul femminile, un archivio iconografico di automi, di cadaveri che si muovono a scatti, privi di espressione, costretti a un movimento malato, meccanico, che amplifica, quasi con violenza, quasi a voler fare male, la rappresentazione del corpo della donna, della sessualità, delle contraddittorietà sociali che scambiano il nudo liberatorio con un vestito, una maschera, da dover portare addosso. Provocatorio, dunque, il lavoro di Bachzetisis, coreografa e artista divisa tra Basilea e Zurigo, come le performance proposte nell’ultima giornata del festival che ha dato spazio ad artisti sempre in bilico sul confine tra performativo e non performativo.
Camminando per le sale dell’ex GAM, quindi, si poteva incontrare Olivier Kosta-Thèfaine, che su un’impalcatura dava vita a Squatter, regarder le ciel: gioco cromatico dovuto alla combustione di una fiamma. Bruciature che nell’atto di rovinare riescono a donare un altro cielo in cui guardare, un altro firmamento in cui perdersi. Con un semplice accendino l’artista francese riesce a trasformare in un’opera d’arte quello che potrebbe essere classificato come un gesto vandalico.
HASSABI E PENG
Così come è facile lasciarsi imbambolare da Staged? di Maria Hassabi, coreografa cipriota che vive a New York. Un caleidoscopio lentissimo, dei fermo immagine, un cortometraggio a ralenti con quattro donne. Si sta lì immobili a guardarle dall’alto o circumnavigando lo spazio scenico. Statue flemmatiche che lasciano, dunque, un punto interrogativo su cosa voglia dire “mettere in scena”. Stesso tema espresso in maniera completamente diversa da Dana Michel, questa volta nel solo Palna Easy Francis: seduta su una pedana mobile, fa oscillare il bacino spostandosi in avanti e infrangendosi contro una platea vuota, lasciandosi alle spalle uno schermo spento. E infatti si ha la sensazione di (non) guardare niente. Il ritmo dei suoi stessi versi aumenta in un beatbox che assomiglia a una (non) lingua straniera, lontana, che vuole/non vuole dire nulla. Citando la presentazione dello spettacolo: “Gotta let go of what they tell you, you are capable of! The sun doesn‘t have to rule the whole game! There is snow too. Trust me!”. E noi ci fidiamo di lei, la seguiamo in un viaggio ossimorico che si alterna tra le facce di una stessa medaglia e, nel suo trasportarci verso il nulla, ci fa approdare su rive opposte. Non c’è pubblico seduto ma ci sono le sedie, è a petto nudo con un cappello di lana in testa, c’è una luce blu e una rossa, ci sono suoni e non ci sono parole. C’è tutto e non c’è niente. Forse, c’è sia il sole sia la neve.
Un po’ come Gianni Peng, nome che da sempre accompagna il festival: un’identità inesistente ma reale, soggetto e oggetto, concretamente astratto. Quella linea sottile, incerta, su cui la Live Arts Week tenta di tessere un dialogo tra vari linguaggi funambolici che a volte inciampano su loro stessi e che a volte sono fermi in fragili equilibri.
– Alessandra Corsini
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