Ombre in caduta libera. Daniil Simkin al Guggenheim di New York
Nell’iconica rotunda del Guggenheim Museum di New York, Daniil Simkin ha realizzato un’ipertecnologica performance dal titolo “Falls the Shadow” (da Eliot). Dove sono soprattutto i corpi a mostrare la più alta consapevolezza di un’idea di contemporaneo.
Commissionata dalla serie Works & Process Rotunda Project (residenza e performance) a uno dei principal di ABT (American Ballet Theatre), il ballerino di origini russe Daniil Simkin, la performance Falls the Shadow si è svolta nella iconica rotonda (ossia lo spazio interno centrale) del Solomon R. Guggenheim Musem di New York. L’evento ha un poco ravvivato l’altrimenti assente programmazione della danza in città nel mese di agosto. Chi si ricorda, qui al Guggenheim, All di Maurizio Cattelan, con (quasi) tutte le sue opere appese al soffitto e pendenti su questa verticale circonferenza, conosce l’efficacia aerea del volume, lo spazio dinamico di un vuoto circoscritto ma volatile perché come sempre in movimento.
Daniil Simkin ha coinvolto in questa operazione un’altra straordinaria solista di ABT, Cassandra Trenary, un’ottima interprete della Hubbard Street Dance di Chicago, Ana Lopez, e il danzatore Brett Conway. Ha affidato invece la coreografia a Alejandro Cerrudo, anch’egli in forza alla Hubbard (di recente collaboratore anche di Wendy Whelan); il disegno dei bellissimi costumi a Maria Grazia Chiuri della maison Dior, di cui è anche artistic director; il disegno delle proiezioni a Dmitrij Simkin (padre di Daniil) e il progetto visivo intermediale a Arístides Job García Hernández. Di che si tratta? I movimenti dei performer erano catturati in tempo reale da sensori di movimento per generare mappe visive in 3D proiettate a terra e sull’intero volume delle pareti: “per creare un’esperienza immersiva che unisca tecnologia, musica, visual art, moda e danza”. E ce n’è abbastanza da rimanere tutti soddisfatti.
PERFORMANCE E MUSEI
Ma una prima riflessione monta subito quasi da sé: con alle spalle tanti incredibili Picasso e Kandinsky sulle altrettanto iconiche pareti, ogni evento non rischia sempre di restare qui solo contorno? Mentre la sensazione più divertita è quella che anche una qualsiasi banda di paese o una corale alpina delle nostre, messa qui, riuscirebbe comunque a creare un evento. Quando si lavora per la performance nei musei occorre forse tenere in maggior conto proprio questo: ossia di come il circostante spesso tende a rimanere protagonista e di quanta resistenza occorre saper vincere per farlo diventare contesto. Le idee drammaturgiche e le trovate sceniche non sempre bastano, meglio funziona a volte il buon senso e il paziente calcolo di una misura.
In avvio, alcune proiezioni percorrono la parte esposta della nota balaustra a spirale ascendente, come scoperte da una mano anch’essa proiettata. Sono frammenti di versi da The Hollow Men [Gli uomini vuoti] di T. S. Eliot, poema del 1925 da cui anche il titolo della performance dipende. Con una preferenza per le reiterate contrapposizioni duali dell’ultima parte (idea/reality; motion/act; conception/creation ecc.), le quali molto bene si prestano a una riflessione sul ruolo dell’ombra come limite, come confine tra salvezza e dannazione. Lo spettatore assiste sempre dall’alto, in diverse altezze e la visione dunque è sempre parziale, incompiuta e braccante. La coreografia, di segno già abbastanza impersonale, non supera mai le intensità evocative di tanto dispiegamento video, tantomeno arriva al dialogo con le visioni testuali di riferimento. L’esperimento di un gesto morbido, di scontati movimenti a spirale, di incastri estremamente sobri, prese leggerissime, lift bassi e senza forza, e di una organizzazione tra entrate e uscite in alternanza tra lavoro di gruppo, duetti e brevi assoli, non supera mai l’impressione effettiva di una intenzione di gioco, con le forme e con le proprie ombre, in una riuscita inutilmente decorativa.
ERRORI E MOVIMENTO
Il più grave errore in termini coreografici è stato quello di voler realizzare l’idea che le forme visive fossero la conseguenza diretta di impulsi e movimenti interiori ripresi da camere a infrarossi ed elaborati da scanner famelici (connettendo così l’emozione del gesto al paesaggio illuministico creato nel circostante). E in momenti di speciale sincronizzazione questo è anche riuscito, ma regalando niente più che la sensazione di un effetto, la facile meraviglia di un botta e risposta, più che l’epifania delle trame di un processo generativo capace di mistero.
Sarebbe senz’altro bastato ribaltare l’assunto rinunciando alla “recita”, al “pathos” della scoperta, per lasciare che i corpi reagissero invece alle proposte visive, in termini anche sempre nuovi e non predefiniti, trasmettendo così dichiarato il disegno e leggibile il processo creativo. Il dialogo sempre aperto piuttosto che le forme costruite e simulate.
Non a caso, il momento più alto e riuscito è il duetto tra Daniil Simkin e Cassandra Trenary. L’effetto della proiezione video di uno spazio che si guadagna nel movimento progressivo non è più che un ornamento all’intensa e guidata intesa di partnering a cui i due corpi danno vita. Qui la trama di una concordanza attraverso la comprensione dell’altro supera di gran lunga l’esilità dell’invenzione coreografica e la prevedibilità del paesaggio sonoro (i soliti Max Richter, Nils Frahm, ecc.). E non a caso, Simkin è in partenza per lo Staatsballett di Berlino per lavorare con Sasha Waltz.
Ciò che maggiormente resta, infatti, di tanto affanno tecnologico è proprio la estrema consapevolezza di un movimento contemporaneo nei corpi dei quattro interpreti. La forte comprensione del loro stare in gioco, il senso di responsabilità per un gesto pienamente a disposizione dell’idea performativa. Una grande lezione per chi è ancora incapace di trovare ragioni contemporanee al mondo del balletto, e di affrancarsi dalle tante dittature che lo soffocano: musica, gerarchie dei ruoli, nostalgia per ciò che non è più.
‒ Stefano Tomassini
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