Do Disturb 2019: festival della performance al Palais de Tokyo. Intervista a Vittoria Matarrese
Dal 12 al 14 aprile torna Do Disturb l’imperdibile appuntamento parigino con la performance al Palais de Tokyo. Quest’anno con un’importante partecipazione italiana. Ne abbiamo parlato con Vittoria Matarrese, la curatrice.
Dal 12 al 14 aprile torna Do Disturb l’imperdibile appuntamento parigino con la performance al Palais de Tokyo. Tante le presenze italiane e tanti i partner e le istituzioni coinvolte. Centrale Fies ha fatto parte delle sette istituzioni internazionali che hanno collaborato alla programmazione di quest’anno insieme a: Triangle France (Marsiglia), BAR Project (Barcellona), Gasworks (Londra), Centre Wallonie Bruxelles (Parigi), Watermill Center (New York) et il Centre National de la Danse (Pantin), cui si aggiunge il progetto musicale Boiler Room. Attraverso una vasta proposta e una fitta rete di partner, il festival si conferma come momento di riflessione importante sullo stato della performance e spazio di raduno delle forze in campo, oltre i confini europei, a sostegno di questa forma d’arte ibrida e sempre più prolifica. Come l’anno scorso ad introdurci la programmazione è la curatrice Vittoria Matarrese.
La prima nota distintiva riguarda le partnership: quest’anno l’avventura collettiva coinvolge centri di residenza e produzione, piuttosto che scene o festival. Un avvicinarsi al processo oltre che al prodotto che va di pari passo con la nuova vocazione del Palais de Tokyo. Apre infatti quest’anno La Manutention, spazio per residenze performative con annesso spazio abitativo, da te fortemente voluto e oggi diretto.
È l’aver lanciato La Manutention con un denso programma di residenze di artisti e performer che mi ha fatta avvicinare sempre più ai centri di produzione di arti performative, per capirne il funzionamento. Ho cosi incontrato le persone magnifiche che sono alla direzione dei 7 enti partner di questa edizione. Rispetto all’anno scorso mi sembrava importante dare la parola a centri piccoli e molto meno conosciuti che fanno un lavoro straordinario rispetto alla performance.
La Manutention è anche un esempio unico nel suo genere se pensiamo che si trova all’interno di un’istituzione museale. Da tanto avrei voluto dare voce a questo progetto e alla sua programmazione multipla e ibrida, interessantissima sia per la proposta artistica che per le modalità di fruizione che offre al pubblico. Anche questo un unicum. Lo spettatore ha infatti modo di seguire la residenza di ogni artista attraverso 4 momenti di apertura al pubblico. Come nasce e si sviluppa?
È un luogo ed un progetto che ho voluto fortemente. Nasce perché avevo voglia di approfondire il rapporto con gli artisti performer e fare del Palais de Tokyo non solo un luogo di diffusione ma anche di produzione, sia di pensiero che di progetti artistici. Ad ogni artista è offerto un mese di residenza, che mi è sembrato un buono spazio-tempo per creare, incontrare il pubblico ma anche, poiché siamo all’interno di un’istituzione, incontrare giornalisti, collezionisti e altri professionisti del settore per costruire un percorso di sviluppo. Il luogo fisico è un appartamento-atelier, che abbiamo fatto costruire all’interno del Palais de Tokyo, completamente attrezzato per prove e lavoro (tappeto di danza, videoproiettori, etc.). Le aperture al pubblico si svolgono invece negli spazi del Palais aperti al pubblico.
L’artista in residenza a sua volta si fa curatore di ognuna delle 4 serate, alle quali può associare altri artisti. Un dispositivo aperto. Un dato caratteristico che personalmente non ho incontrato altrove all’interno di processi di residenza. Manterrai questo principio?
Si assolutamente, non solo offro carte blanche ma incito i residenti ad invitare altri artisti per creare insieme o separatamente, perché e importante che il pubblico possa conoscere l’orizzonte dell’artista in residenza in senso ampio anche attraverso le persone con cui collabora.
E cosa ci dici degli artisti invitati finora?
Il primo è stato Paul Maheke, che adesso sta avendo un gran successo: selezionato per la Biennale di Venezia, si è visto commissionare un lavoro importante da Performa a New York per novembre e a giugno inaugura una mostra a Triangle France, uno dei partner di quest’edizione di DO DISTURB. Attraverso il suo lavoro ho iniziato a seguire il tema della blackness, a lui sono seguiti Jamila Johnson-small nel 2018 e Miles Greenberg nel 2019. Un altro asse importante è stato quello musicale. Per il primo trimestre del 2020 invece ho scelto di legare il lavoro performativo ad una forma espositiva. Non posso rivelare ancora chi sarà l’artista ma a lui sarà dedicato uno spazio del Palais de Tokyo per un mese intero per una dimensione espositiva stabile durante il mese di residenza e una visibilità più ampia di quella prevista finora.
Un progetto coraggioso e per cui hai lavorato tanto e che è stato reso possibile anche grazie al sostegno economico degli Amici del Palais de Tokyo e allo studio Freaks Freearchitects che ha realizzato il progetto architettonico. Insomma un maillage di collaborazioni, proprio come per DO DISTURB. E tornando a DO DISTURB un’ulteriore novità è lo spazio dedicato alle scene immersive e permanenti, degli spazi statici dedicati ad artisti come Reza Mirabi, una proposta di Centrale Fies.
Ho incontrato il lavoro di Reza l’estate scorsa a Centrale Fies, all’interno di Live Works e ho subito capito che era adatto DO DISTURB. Si tratta di un’installazione immersiva, senza inizio né una fine. Uno spazio-tempo slegato da una narrazione precisa, in cui si entra e si esce a piacimento. Un punto fisso nel flusso che da sempre caratterizza il fruire di DO DISTURB. I lavori di Hoël Duret / Tanguy Malik Bordage e di Melanie Bonajo sono ulteriori spazi di attivazione permanente, un continuum. Spero che funzioni! questo chiaramente unito alle performance che si alternano nei diversi luoghi, come ogni anno.
L’anno scorso abbiamo visto il ritorno del testo e quest’anno ci spingiamo oltre, torna la narrazione o almeno una forma “romanzata” e romanzesca… è sintomo di qualcosa di più ampio o una tua scelta stilistica?
Non c’è premeditazione ma effettivamente per progetti come quelli di Hoël Duret e di Melanie Bonajo ciò che viene presentato al festival sono dei capitoli di un progetto più ampio, come fosse un libro, per cui non è narrativo il singolo lavoro ma piuttosto l’approccio generale.
Parlando degli artisti italiani presenti al festival, quest’anno sono in numero superiore: Dewey Dell, I figli di Marla e Jacopo Jenna (ancor auna proposta di Centrale Fies). Ognuno con un lavoro molto diverso.
Si sono contenta perché ci sono stati anni in cui non riuscivo a trovare un progetto italiano adatto al festival e invece oggi la scena performativa italiana sta crescendo.
Sta crescendo anche l’attenzione alla performace da parte dei festival, musei e centri di produzione. Centrale Fies è stato uno dei precursori ma ora anche importanti Istituzioni museali o Fondazioni si aprono a questo linguaggio.
E gli artisti che porto lavorano molto anche all’internazionale. La danza e la musica sono i linguaggi comuni ma i progetti sono molto diversi. I Figli di Marna opera un processo fortemente psicologico, creando delle “coreografie affettive”, un atto di sensibilizzazione al corpo e al movimento molto vicino alla psicanalisi. Jacono Jenna mette a confronto tre tipi di danza con tre generi musicali diversi, dal contemporaneo, alla street al rap. Dewey Dell lavora su musica e coreografia attraverso una grammatica ampia e presenteranno tre performance diverse, un concerto e due pezzi coreografici.
Fil rouge rispetto all’edizione dello scorso anno è l’impegno politico di alcune proposte ma sotto quali forme?
Le questioni di genere sono ancora una volta molto presenti. Si affermano tanto attraverso rivendicazioni femministe, che attraverso una visione non binaria delle individualità che compongono questo mondo. Penso in particolare ai progetti di Mercedes Dassy, Melanie Bonajo o Victoria Sin, così come la programmazione proposta da 4:3, la piattaforma creativa di Boiler Room, che interviene di giorno con una programmazione di film e di notte curando la serata di musica e performance DO DISTURB BY NIGHT, sabato 13 Aprile.
E poi?
Melanie Bonajo è un’artista olandese, la cui trilogia video Night Soil attraverso cui riflette sul nostro rapporto con la natura e la disconnessione che caratterizza le culture occidentali, proponendo ritratti di donne che, alla ricerca di nuovi rituali, sperimentano forme di vita alternative e radicali. Si esibirà una volta al giorno all’interno della sua installazione. Mercedes Dassy, con i-clit, porta la discussione sulla diffusione e volgarizzazione del femminismo: le vere acquisizioni e le possibili contraddizioni, come lo sfruttamento di un certo femminismo iper sessuato a fini di marketing. Victoria Sin, drag queen londinese di origine canadese, incarna, attraverso il suo lavoro, esseri e identità molteplici, quasi a scrivere un manifesto formale per la costruzione dell’identità di genere.
Boiler Room, progetto che nasce per il web, è la nuova frontiera del clubbing e mostra come il web si faccia sempre più luogo di proposte di valore culturale e anche di “resistenza” e affermazione delle minoranze, delle sottoculture e delle culture alternative. Cosa te li ha fatti scoprire e amare?
Li seguo da molto tempo… 4:3 che è la parte di ricerca di Boiler Room, ha eseguito una selezione di film per i 3 giorni di cui una première francese. SHAKEDOW (2018) è un film di Leilah Weinraub su uno strip club lesbico sotterraneo nero a Los Angeles, un oggetto piuttosto straordinario, seguito da NSFW (2019), una serie di 5 film brevi di registi diversi e Bixa Travesty (2018) un documentario che segue Linn Da Quebrada, una donna trans nera, performer e attivista che vive a San Paolo. La notte di sabato 13, Brooke Candy si esibirà anche dal vivo.
–Chiara Pirri
https://www.palaisdetokyo.com/fr/evenement/do-disturb-
Artribune è anche su Whatsapp. È sufficiente cliccare qui per iscriversi al canale ed essere sempre aggiornati