Romaeuropa, il festival “onnivoro”
Ancora un focus sui protagonisti del Romaeuropa festival, da poco concluso nella Capitale.
Il Romaeuropa festival chiude dopo tre mesi e altro va detto sui diversi lavori visti nelle varie sezioni. Lo spazio della piccola chiesa barocca di Santa Rita viene ogni anno modificato da installazioni digitali. L’ungherese Gyula Varnài in One of the Few Moments utilizza il sistema delle lampade traforate arabe o del teatro delle ombre: far passare la luce attraverso un materiale ritagliato, e la luce (partendo da un modello di cartone della chiesa) ridefinisce gli spazi della chiesa nel buio. È (polemicamente forse) un bell’effetto speciale realizzato con sistemi analogici e antichissimi. Diverso il lavoro dei Quiet Ensamble, che tornano ai temi della natura con Primitive Primavere, grande spazio velato in cui si muovono ritmicamente le luci esitanti di uno sciame di lucciole. Fra luci in movimento e musica in progressione, si scopre l’illusione: sono luci led, uniche lucciole possibili in una natura “snaturata”.
Théo Mercier e Steven Michel criticano il massimo dei miti della casa: Ikea. Un omino molto chapliniano si mette all’opera per montare un mobile (in un ambiente altrettanto Ikea), fra errori e ritmi di lavoro convulso. Il montaggio diventa un nonsense, un’azione compulsiva, una dimostrazione scientifico-tecnologica, una protesta contro la massificazione del gusto e dei consumi, interpretato da uno Charlot in Tempi Moderni.
UN NUOVO BOLERO
Lo spagnolo Jesus Rubio Dario dirige una originale rivisitazione del Bolero di Ravel, reinterpretandolo come suono e come danza. Un gruppo di giovani uomini e donne in tute sportive irrompe a passo di marcia sul palcoscenico e inizia a percorrerlo nel suo perimetro. Nessun arredo, solo fari direzionati. La marcia continua senza intervalli, come nel bel film Non si uccidono così anche i cavalli?, dove la danza da sala diveniva una marcia dolorosa e micidiale per salvarsi dalla miseria. Ma qui è una marcia di protesta, anche se non è visibile il nemico. A differenza di altri gruppi di danza, i corpi non sono “belli”, anzi sono volutamente imperfetti: la magra e la grossa, il basso e l’altissimo. Il dato unificante è il senso contestatario del loro atteggiamento. Si sviluppano man mano altre dinamiche: a ogni giro uno dei danzatori si toglie un indumento, mentre improvvisi scarti uniscono due o più danzatori/danzatrici in abbracci di disperata sensualità e richiesta affettiva. La marcia continua e acquisisce drammaticità, contenendo dei micro interventi di azioni sempre più violente e apertamente sensuali. Gradualmente l’intero gruppo si spoglia e, nudo o seminudo, accenna ad atti d’amore. Come nel film Zabriskie Point di Antonioni, dove intorno a una coppia di giovani amanti il deserto si animava di corpi nudi (gli attori del Living Theatre) che si intrecciavano come nelle sculture tantriche, rappresentando amore universale e pansessualità. Alla fine danzatori e danzatrici gridano, esausti, ribelli, aggressivi, sfiniti ed esasperati, urlano forte e (senza dirlo) reclamano la necessità di essere felici. Un grosso merito per un lavoro così efficace è certamente della musica di José Pablo Polo, che decostruisce il Bolero per ricavarne ritmi di guerra, immagini drammatiche e tonalità elettroniche scavando i suoni all’interno del bellissimo e famosissimo originale che così riscopriamo. Lavoro memorabile.
FRA MUSICA E IMMAGINE
Il tastierista Chassol e il batterista Matthieu Eduard, duo afro/francese/americano, presentano un’originale interazione fra musica e immagine. Diverse “docufiction” sul gioco, fatte sui bambini in un parco di New York, sulle realtà razziali e, cosa di forte interesse, sovrapponendo altre figure a incastro nel filmato, così come altri suoni, in un tessuto di semplici e diretti contenuti visivi con una musicalità complessa. In questa musicalità vengono inseriti testi, parlati presi dalle situazioni filmate, frammenti sonori e poi rimixati. Il risultato fa sentire una città viva e un chiaro interesse verso il sociale che viene espresso in modo inventivo. Il musicista elettronico Christian Fennesz e il videomaker Lillevan propongono una musica e un Vjaing teso e “alto” all’interno di una ricerca fra techno pop e musica classica. È un punto difficile che coinvolge un po’ tutta quest’area, che forse dovrebbe resettare la sua esperienza ormai lunga e rendere la ricerca più innovativa o semplicemente più vivace. La simpatica Fatoumata Diawara, cantante pop africana, lavora con un’orchestra ben scelta fra strumenti tradizionali e tastiere elettroniche rock. Una world music ma con l’anima, e la comunicatività della cantante (e chitarrista) trascina il pubblico in modo inaspettato, facendogli battere ritmicamente le mani con grande entusiasmo e ballare freneticamente in massa come non si vedeva da tempo in un teatro. Rivelando la diffusione della musica africana che sta sostituendo la musica latino americana come danza liberatoria e ritmica. Come si diceva una volta, pubblico in delirio.
‒ Lorenzo Taiuti
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