Performance contro il patriarcato in scena a Roma
L’ultima edizione della rassegna “Hidden Stories” ha portato la performance nello spazio pubblico di Roma per riflettere sugli effetti delle culture patriarcali e colonizzatrici.
Si è conclusa a Roma la seconda tappa del programma di Hidden Histories 2021 – Pratiche performative nello spazio pubblico che ci ha condotto, attraverso quattro appuntamenti, nei metodi e nelle prassi dell’appropriazione e risignificazione collettiva della superficie urbana.
Curato da Sara Alberani e Valerio Del Baglivo (LOCALES), in collaborazione con Marta Federici, il programma di Hidden Histories 2021 ha coinvolto Josèfa Ntjam, Leone Contini, Daniela Ortiz e Adila Bennedjaï-Zou in iniziative tese a costruire nuove narrazioni dello e nello spazio pubblico, risignificando ciò che le culture patriarcali e colonizzatrici come la nostra hanno prodotto ed eretto: monumenti, collezioni, le diverse forme di patrimonio pubblico, precise narrazioni. Non si è trattato quindi di svelare storie nascoste, ma di sondare concetti come origine, cultura, razza, identità attraverso performance, talk e workshop declinati come tattiche controegemoniche. Gli intenti pedagogici dell’intera iniziativa sono evidenti, e le metodologie utilizzate da curatori/trici e artiste/i hanno fatto sì che costruire immaginari e modelli narrativi alternativi sia stato possibile solo fendendo il reale, agendolo al presente, pubblicamente.
L’AGRICOLTURA SPAESATA DI CONTINI
Dal 22 al 24 settembre l’artista toscano Leone Contini ha condotto il workshop Museo Fantasma: un dispiegarsi di metodologie di educazione dello (e allo) sguardo che interrogano i resti della collezione smembrata dell’Ex Museo Africano di Roma, aperto dal 1904 al 1971 e dedicato ai popoli e alle culture delle colonie italiane d’Africa. Il workshop, sviluppato in collaborazione con NABA e MuCiv (Museo delle Civiltà), fa riemergere non solo la storia del nostro passato colonialista, spesso sottaciuta, ma mette i partecipanti di fronte alla necessità di “stanare la bianchezza dentro di noi”, spiega l’artista durante il talk di presentazione presso la sede della Nuova Accademia di Belle Arti. Si tratta di un’assunzione di responsabilità politica di sé stessi, delle proprie parole, dei propri gesti, indirizzati, durante il workshop, a una ricostruzione evocativa del “museo fantasma” che ne evidenzi la retorica passata per farne emergere una contropartita: sviluppare pratiche di pensiero per narrazioni altre.
In questo senso il canone, la collezione, la curatela vengono ripensati nei confronti dell’eredità coloniale e di quanto ancora oggi ne rappresenti la sua stratificazione ideologica – Contini la chiama “concrezione”. Contro queste forme di reazione sempre presenti Contini agisce tattiche che spaginano la realtà quotidiana, come l’“agricoltura spaesata”. Nell’ex Museo Africano di Roma sono presenti dei semi di specie vegetali allogene strappati alla loro terra, inglobati nel museo che li ha fossilizzati. E lì possono stare. Quelli importati da piccoli coltivatori cinesi, senegalesi ecc. sul territorio italiano vengono invece considerati illegali, e da oltre un decennio le nostre forze dell’ordine sequestrano e smantellano piccoli orti. Ecco allora l’agricoltura spaesata di Contini che crea ibridazioni di cucina tosco-cinese (l’ibridazione dei ravioli), un orto senegalese sul Piave, orti bengalesi a Terracina. Orti che si fanno tessiture relazionali come i processi di crescita vegetativi si fanno processi performativi. Dopo il racconto sulle pratiche di risignificazione messe in atto dall’artista, sul suo agire tra detriti, tra organico e inorganico e sempre in continuo rapporto con le comunità con cui si relaziona per affettività, Contini ci mostra una foto in cui lo vediamo lanciare in mare una bottiglia con dei semi. Restituzione, pratica antitetica a quella della collezione.
L’AZIONE DI DANIELA ORTIZ
Il 29 settembre Daniela Ortiz, artista peruviana, ci dà appuntamento in Piazza di San Pietro in Montorio, dove avvia la fase iniziale della sua azione (realizzata con il sostegno della Real Academia de España en Roma e del Centro Cultural de España en Lima): guidarci in un percorso, un cammino tra mausolei, monumenti e narrazioni ufficiali che Ortiz mette in questione pubblicamente. Sono soprattutto le figure delle madri e dei figli a interessare l’artista, la lupa scolpita nel Mausoleo Ossario Garibaldino che vela l’assenza di una madre morta; c’è poi Anita Garibaldi narrata dal regime fascista come madre ed eroina nella statua equestre che Ortiz collega all’ONMI (Opera nazionale maternità e infanzia). Accanto al monumento dedicato ad Anita Garibaldi, sotto le fronde di un albero ci sediamo tutti per la parte finale dell’azione di Ortiz, uno spettacolo di marionette dal titolo I figli della lupa in cui viene narrata la vicenda di Anteo Simone Tafari e sua madre, immigrati. Il ragazzo, senza padre, viene affidato ai servizi sociali – che la marionetta “di Stato” con un lapsus chiama con il nome dell’OMNI come ai tempi del fascismo – perché la madre è colpevole di non seguirlo, dato che durante il giorno lavora. L’affettività di madre e figlio vengono irrimediabilmente compromesse e ogni tentativo della donna di contattare il figlio è inascoltato dallo Stato. Finché la madre va a salvarlo nell’edificio dove il piccolo Simone è letteralmente sequestrato. La fuga si conclude con l’augurio – forse un po’ ingenuo – dell’avvenire del socialismo.
Daniela Ortiz ci invita così a ripensare il patrimonio pubblico e la dimensione urbana come possibilità di instaurare delle controvoci vive, incarnate, da agire in prossimità delle narrazioni ufficiali, contestando così più precisamente un percorso storico che ha lasciato continui segni della sua sopraffazione velata d’eroismo.
– Daniele Vergni
www.localesproject.org/hidden-histories-2021/
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